PETER BRÖTZMANN – HEATHER LEIGH, 21/5/2017
Cadoneghe (Padova), Villa Da Ponte.
Secoli fa, al Link di Bologna, dove ora incombe un palazzaccio grigio e senz’anima del Comune… I Don Caballero a presentare dal vivo What Burns Never Returns, mastodonte di incastri ritmici e singhiozzi geometrici, con Damon Che e il suo batterismo ossessivo-compulsivo a non lasciare mai uno spigolo vuoto. Ciò che brucia non ritorna mai: avevano ragione gli eroi del math, almeno nel titolo. Ma, alla fine, una sensazione di saturazione completa, di noia. Non era rimasto nulla ed ero contento di stare finalmente nel silenzio. La band aveva riempito tutto lo spazio disponibile, e l’impressione che aveva lasciato era di non aver suonato nulla. Perché i vuoti sono fondamentali, come insegna James Brown, il groove lo crei con il silenzio. Less is more.
Non c’è groove nella musica di Peter Brötzmann e di Heather Leigh, ma coesistono felicemente molte dinamiche, la capacità di rendere significativo ogni momento, ogni passaggio, di lasciare (e sottraendo, crearlo…) spazio, appunto. Heather Leigh alla pedal steel (strumento che siamo soliti associare all’Americana, ai dylaniati, alle polverose radure delle dodici battute) è magistrale in questo senso: un suono elementare e primitivo, che sa di campi sconfinati, un lungo piano sequenza di folk allucinato, poche variazioni armoniche e ritmiche a creare una bruma sottile, una pellicola che avvolge le orecchie portandole in luoghi davvero mai visti (cinema per l’udito, si diceva una volta). Un blues catatonico e claustrale, delicate reiterazioni minimaliste e un perenne senso di lieve smarrimento che si fonde alla perfezione con la ben nota irruenza di Brötzmann. Che da par suo, come sempre, spende fino all’ultimo spicciolo di fiato dentro ai suoi strumenti (sax, clarinetto e tarogato), come fosse una questione di vita o di morte, come se non ci fosse più possibilità di farsi sentire, poi, ed alcuni dei presenti si tappano le orecchie. Buon segno, per chi scrive.
I languori puntillistici della Leigh danno molta profondità agli strappi circolari del grande vecchio del free europeo, cadono in precipizi per poi salire al cielo e redimersi, e gli aerofoni del tedesco indemoniato sanno anche essere lirici e sornioni, oltre che selvatici e screanzati. Certo, al dna non si comanda e quindi i rimbrotti e le sfuriate partono regolarmente, ma grazie ai suoni della pedal steel effettata della Leigh tutto pare galleggiare in una strana, aliena eppure familiare specie di liquido amniotico, in uno stadio di pre-coscienza dove vaghiamo a tentoni, al rallentatore, come astronauti su una nuova, sensuale, tiepida luna. Tre lunghi flussi, il primo di circa una cinquantina di minuti, poi due brevi chiose, un vero trip dove passiamo da meditabonde esplorazioni alla buddità frastagliata dei Necks, da un impossibile connubio tra la grazia di un’arpa extraterrestre e la furia di un sassofono (forgiato nell’antro di Efesto) ad allucinazioni bluegrass.
Un plauso all’associazione Whydanghi per aver organizzato il live in uno spazio davvero suggestivo, una villa del Settecento.
Ciò che brucia non ritorna, ma brilla, se lo sai ascoltare…
Le foto sono di Paola Coltelli.