PAUL SCHÜTZE, The Sky Torn Apart
Ode al Ragnarök, quando l’intero mondo sarà distrutto e, quindi, rigenerato al culmine della battaglia finale tra le potenze della luce e dell’ordine e quelle delle tenebre e del caos. The Sky Torn Apart, pubblicato dalla Glacial Movements, affonda le sue radici nella mitologia norrena, che attribuisce all’acqua il compito di purgare la terra. Un concept ad hoc per rimarcare il parallelismo in atto tra la trasformazione dell’ambiente naturale da parte dell’uomo e il suo triste futuro, strumentale per celebrare l’atteso ritorno di Paul Schütze, i cui primi progetti discografici risalgono alla fine degli anni Ottanta. Collaboratore di Bill Laswell, Clive Bell, David Toop e Jah Wobble, l’artista di Melbourne non si è mai limitato al mero approfondimento di tematiche musicali: nella sua carriera si annoverano, infatti, installazioni per gallerie e musei internazionali, fotografie incluse in collezioni pubbliche e private e, addirittura, una fragranza con il suo nome.
Il monito ambientalista di Paul Schütze è ravvisabile sin dai primi suoni “acquatici” contenuti in “The Sky Torn Apart”. Come rivoli d’acqua che scorrono inesorabili in enormi caverne. Distanti i tuoni, prolungati i ronzii. Un bordone ripetitivo sempre più opprimente. L’incontrollato rimodellamento del pianeta può condurre l’umanità alla sua stessa fine, un cataclisma che non si manifesterà attraverso la “glaciazione” cara all’etichetta italiana. La corrispondenza artistica tra i timori dell’australiano e il tradizionale messaggio isolazionista di Alessandro Tedeschi è eccellente: l’atmosfera premonitrice di “The Sky Torn Apart” è inquietante. Se la prima parte del brano rimanda all’alluvione, la seconda assume toni più calmi, con suoni più distinti e, di pari passo, meno claustrofobia. Le acque si ritirano piano piano. Si evoca, in breve, l’inizio di una nuova vita, con la consapevolezza che tutto ciò che comincia ha sempre una fine. Talvolta lieta.
Il contenuto di The Sky Torn Apart non è solo denso come la nebbia o sfuggente come il vento. La musica raffinata di Paul Schütze avvolge l’ascoltatore per quasi un’ora anche tramite calibrate variazioni di ritmo e l’utilizzo sia di field recordings, sia del flauto dritto giapponese, lo shakuhachi, suonato proprio da Clive Bell. Un minimalismo, forse, non facile da fruire durante il primo ascolto. La contemplazione sul destino del nostro pianeta, però, è senza parole. Il silenzio, l’immaginaria linea di demarcazione temporale, non è affatto casuale. Talune risonanze sono, invece, cristalline persino quando l’oscurità è assoluta. Il drone cambia lentamente forma e struttura. La monotonia è scongiurata. L’impatto visivo su una sfera tutta interiore. La percezione dell’immensità trasmessa dal lavoro dell’artista giace così nella comprensione delle millenarie leggi universali. Non dettate, ma imposte dal naturale corso degli eventi, a favore del mistero dell’infinito. Enigmatico.