PATTI SMITH, 26/7/2012
Divagazioni sul Sogno di Costantino
Arezzo, Basilica di San Francesco.
Tutto è arte, tutto è futuro.
L’incanto e l’incantesimo di un’opera d’arte, come una sindrome di Stendhal che pervade un animo già sulla scia di una conversione tardiva, sono l’impulso che ha spinto Patti Smith a omaggiare la città di Arezzo con un reading-concerto tenutosi nella chiesa di San Francesco, sotto ai lavori di Piero della Francesca che tanto l’avevano affascinata durante un suo soggiorno in città, ispirandole il pezzo “Constantine’s Dream”.
Oggi la Basilica non ospita solo la cantante statunitense, ma si apre, si eleva a dissertazioni sull’Arte, sulla Natura, sulla Storia, su Piero della Francesca e sui suoi affreschi, noti come “La Leggenda Della Vera Croce”, in un flusso sinuoso che prende forma in un’ambientazione tanto contemplativa quanto umana e razionale.
C’è il sogno di Costantino a fare da sfondo come un basso continuo, un accompagnamento volto a condurre e guidare la “polifonica” e multiforme Patti. Sì, perché la sacerdotessa del rock ha mostrato le sue “voci” più disparate, quelle di musicista, di studiosa, di religiosa e devota, ma anche quella dell’essere umano che sbaglia. Tante chitarre, suonate quasi come strumenti seicenteschi, un violino e una fisarmonica per proporre pezzi nuovi, come quelli dell’album Banga (2012), e classici (non poteva certo mancare “People Have The Power”). Tra i musicisti dei quali Smith si avvale si annoverano i componenti della Casa Del Vento (band combat folk aretina con la quale la cantante aveva intrapreso una collaborazione nel 2009), oltre a Lanny Kaye, Jay Dee Daugherty, Tony Shanahan e Jack Petruzzelli.
Tra una canzone e l’altra, Patti cattura l’attenzione come una figura ieratica e ultraterrena, lasciando spazio a riflessioni su San Francesco: «Ho visto di fronte a me il mondo del suo mondo»; ed ecco che il francescanesimo s’intreccia col dipinto e con chi lo realizzò, raggiungendo il culmine della sua continua sperimentazione sul colore, ma soprattutto sulla luce: quella luce che insisterà a illuminare l’occhio di un Piero della Francesca ormai cieco, proprio perché «come Beethoven, continuerà ad avere fiducia nell’Arte, anche quando quest’ultima sarà vissuta con sofferenza e tristezza».
Ormai la poétesse maudite è unicamente protesa ad un’ascetica redenzione, è un’immagine tenue, sottile e penetrante. Sorride, anche quando dimentica parte di una canzone e prende male un accordo che proprio non vuole andare: «Eppure l’ho scritta io. Ho fatto tanti errori nella mia vita ma mi sono rappacificata con gli errori; in fondo l’errore è parte della nostra vita». La voce della sacerdotessa, ora leggera, ora scura e profonda e quanto mai emozionante, sembra essere incessantemente alla ricerca del sogno di Costantino e del suo.
«Dove sono le tenebre, ch’io porti la luce». Queste le parole della preghiera semplice (erroneamente attribuita a San Francesco) che Patti ha recitato nella parte conclusiva del suo reading, sotto al cielo stellato di un Costantino che continua a sognare, a dimostrazione che, al di là delle apparenze e dell’oscurità, ogni cosa ha in sé una struttura ideale, perfetta, assoluta e finalmente luminosa, sebbene pronta a rinascere e a ricercare costantemente una nuova vita.