PASCAL SAVY, Dislocations
Il pensiero del filosofo, teorico politico e critico musicale Mark Fisher, a un anno e mezzo dalla sua prematura scomparsa, continua a innervare lo spirito dei nostri tempi, dentro e fuori quella che in terra anglofona viene chiamata Cultural Theory. Si è parlato tantissimo di realismo capitalista (che inoltre è il titolo del suo libro più noto, la cui traduzione italiana è stata da poco pubblicata da Nero Editions), di hauntology e lost futures, concetti da cui il mondo dell’arte attinge a piene mani. Così, sentire di un pressoché sconosciuto Pascal Savy (musicista francese oggi di stanza a Londra, con un passato nella techno degli anni Novanta), di un suo nuovo album intitolato Dislocations e interamente ispirato dal pensiero-Fischer, è abbastanza normale che ci si fermi a riflettere su quanto il rischio paraculata sia o meno dietro l’angolo. Per fortuna non sono necessari grandi sforzi per capire che Savy è uno che fa sul serio: non si spiegherebbe altrimenti l’interesse per lui da parte di Experimedia (il noto store digitale che con la sua etichetta eponima, appena resuscitata, ha stampato il disco) e di Stephan Mathieu, che si è occupato del mastering. Oltretutto i master dei suoi precedenti lavori (altri due album, tre ep e un live su etichetta Touch a partire dal 2010) riportano tutti la firma di Taylor Deupree. Questo cosa significa? C’è dunque da aspettarsi una forma di ambient tranquilla, rarefatta e meravigliata così come non di rado avviene in casa 12k, l’etichetta di cui Deupree è fondatore e Mathieu uno degli affiliati più vicini? Non proprio. All’estasiante sense of wonder che trapela da molti dei dischi usciti su 12k, segnandone in qualche modo l’estetica, Savy aggiunge e al tempo stesso oppone – com’è ovvio, dati l’autore e il testo (“Ghosts of My Life: Writings on Depression, Hauntology and Lost Futures”) a cui si ispira – il peso opprimente della consapevolezza e del disincanto maturati insieme all’idea di un futuro lentamente cancellato. Il risultato consta di sei tracce involontariamente dark ambient: non più nella forma di un isolazionismo volontario e deliberato, quanto nel senso atrofizzante di una dislocazione che siamo costretti a subire, bloccati nella trappola di questo eterno presente in cui viviamo.
“The Slow Cancellation Of The Future” – proprio così s’intitola la prima traccia, che dunque cita apertamente Franco “Bifo” Berardi – è un lento trasalire di emozioni nere che ritroveremo poi in forma compiuta. Nuvoloni che si addensano e, come suggerisce il quinto brano, notti dall’atmosfera viscosa. Ma un po’ tutto il disco è un apparire misterioso di citazioni trasfigurate e allusioni tra di loro correlate. “Shadows Out Of Time”, così si chiama il secondo momento, è un riferimento ironico a William Basinski o a Marsen Jules, mentre “Retrograde Amnesia” corregge la “Anterograde Amnesia” di Caretaker: adesso questa perdita di memoria collettiva intacca i ricordi anche con funzione retroattiva. L’unico spiraglio di luce (di speranza?) è affidato opportunamente (eticamente?) ai dieci minuti conclusivi di “Allow The Light”, un drone tanto solido e penetrante quanto evanescente.
Se alla musica di artisti come il succitato Caretaker va dato atto di aver partecipato attivamente alla formazione del pensiero di Mark Fisher, allora a quella di figure defilate come Pascal Savy va il merito di riflettere a posteriori su quel pensiero. Ma tutto questo può consolidare la nostra consapevolezza dei temi qui trattati e con cui concretamente, nell’esperienza del quotidiano, ci scontriamo?