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PARK JIHA, All Living Things

All Living Things non è The Gleam.

Dall’audacia sperimentale del precedente album Park Jiha ha consapevolmente deciso di allontanarsi (non troppo, ma abbastanza) per posare la sua attenzione su una commistione di elementi acustici ed elettronici dalle forme più rassicuranti. Sotto la coperta calda e morbida di All Living Things non si è tuttavia rannicchiata un’autrice in crisi creativa, bensì un talento la cui immaginazione timbrica e compositiva è ora al servizio di un lotto di nove composizioni dal minutaggio contenuto, contrassegnate dalla presenza ormai consueta di strumenti acustici della tradizione coreana che la polistrumentista suona affiancandoli all’elettronica e alla voce.

Il risultato è un album di corti strumentali imbrigliati nella forma canzone, con un’eco celtica che sa di nostalgia (“A Story Of Little Birds”, ad esempio). Si sente spesso una contaminazione non tra generi, ma tra musiche di diverse aree geografiche: in “Breathe Again” e nel suo accompagnamento acustico dai colori quasi mediterranei, attraversati dal filtro di una peculiare sensibilità asiatica e da un’elettronica elegantemente retrò, elemento che incontriamo anche nella mesta “Blown Leaves”, puntellata di archi sintetici che potrebbero provenire da un Logan String Melody. La troviamo nelle reminiscenze arabe di “Growth Ring”, traccia dall’atmosfera ineffabile creata con un’orchestrazione ridotta e da un arrangiamento tanto essenziale quanto originale.

Non sono sicuro se parlare di questo disco in termini di maggiore accessibilità sia del tutto corretto. Certo è che la quasi morriconiana “Eternal Path” farebbe pensare ad uno sforzo consapevole in questa direzione. Scrittura e atmosfere di altri tempi, quasi dal sapore Sixties, che probabilmente in Corea fanno molto esotico.

Una peculiarità della produzione musicale asiatica contemporanea è l’adesione a canoni stilistici occidentali sempre un po’ sorpassati. Sembra che – almeno per quanto riguarda la musica – il tempo scorra meno veloce in Oriente: questo è evidente anche solo ascoltando le colonne sonore di alcuni drama e anime. Spesso si ha la sensazione – nei suoni e nelle soluzioni formali – di andare leggermente a ritroso negli anni. Tutto ciò è inversamente proporzionale alla produzione meno allineata e più sperimentale, forse anche perché già la musica tradizionale è ricca di dissonanze e inconsueti accostamenti timbrici, nati in millenni di isolamento dal resto del mondo.

Il tono ostinatamente pacato che aleggia sul disco sembra dunque intrappolare almeno in parte l’entusiastico slancio sperimentale della precedente produzione. Tuttavia è anche vero che compositori e musicisti necessitano di attraversare molteplici fasi artistiche in cui esplorare differenti stili e suggestioni sonore.

Da un punto di vista formale siamo all’eccellenza, soprattutto nella rara capacità di inserire gli elementi dell’ensemble sempre al posto e al momento giusto. L’uso dosato e centellinato dell’elettronica è soprattutto rimarchevole. È fin troppo facile lasciarsi fagocitare da essa ma l’artista pare averne il pieno controllo e questo è tanto più evidente se consideriamo che Park Jiha ha personalmente curato il mix di tutte le tracce.

Un lavoro che trasuda perfezione formale ed eleganza estetica, lirico e sognante nelle atmosfere, con almeno un paio di tracce che andrebbero studiate a fondo per trarne preziosi insegnamenti in materia di arrangiamento. Nonostante questo, non così brillante come in passato, soprattutto per un persistente retrogusto di già sentito negli spunti melodici e nelle armonie.

È probabile che All Living Things sia stata solo un’escursione in territori bucolici in attesa di un ulteriore cambio di rotta.