Outrage: di thrash e ferite ancora aperte
Per chi, come il sottoscritto, è cresciuto a Roma negli anni Ottanta, quello degli Outrage è un nome di famiglia, il solo sentirlo riporta immediatamente a ricordi di amicizie, concerti, pomeriggi passati a parlare di musica davanti a Revolver o al Pantheon e anche parecchie gag, perché come dice lo stesso protagonista dell’intervista, essere di Roma porta con sé quel carattere predisposto alla battuta anche inclemente e all’auto-ironia che difficilmente riesci a contenere fosse anche nell’occasione più seria. Del resto, il nome della band thrash romana è girato anche ben fuori dai confini cittadini, soprattutto grazie alla frenetica attività di tape-trading e passaparola che animava la scena del periodo, un approccio in fondo non così distante dall’ottica diy che percorreva quella hardcore con cui si andavano sempre più rafforzando i contatti, tanto da dar vita in quegli anni alla prima ondata crossover.
(Still) Open Wounds raccoglie l’album Open Wounds, in realtà mai pubblicato, tre demo e il brano apparso sulla compilation Lethal Noise, soprattutto rappresenta il frutto dell’amore ancora ben vivo per il metal di Vincenzo Barone, cantante della band, che con questo cd ha voluto chiudere un cerchio in modo (sue parole) “completamente autoprodotto, privo di distribuzione di qualunque tipo, totalmente realizzato con mezzi propri”. Per chi ancora non li conoscesse, gli Outrage erano una formazione dedita ad un thrash furioso e vicino allo spirito del primo crossover, con più di una strizzata d’occhio all’indole iconoclasta dell’hardcore, al contempo dotato di una solida tecnica e di un songwriting efficace, riprova ne sono i vari anthem rimasti ben impressi nella mente di chi all’epoca era in possesso di quelle cassette (io ancora custodisco gelosamente l’omonima del 1987). Inutile dire che, a dispetto – o forse grazie – ad una qualità sonora figlia del tempo (soprattutto nelle tre demo), tornano a rivivere in tutta la loro forza l’energia bruciante e la passione vitale di un preciso momento storico in cui esplose una scintilla creativa speciale, in cui tutti noi ci trovammo per qualche strano motivo a diventare protagonisti di una piccola rivoluzione in seno alla scena musicale estrema e di cui gli Outrage rappresentano ancor oggi un efficace esempio in note.
Come ricordavo tempo fa ad un amico, non era strano in quegli anni pubblicare sulla propria ‘zine l’intervista al bassista di una sconosciuta band norvegese che da lì a poco sarebbe assurta alle cronache e alla fama mondiale (parliamo dei Mayhem) così come al gruppo locale con cui si passavano i pomeriggi davanti al negozio di dischi preferito, il tutto senza perdere mai quel senso di appartenenza e quel piglio “carbonaro” che permetteva di sentirsi all’interno di una famiglia allargata e sparsa ai quattro angoli del pianeta. Vincenzo Barone, da parte sua, tutto questo lo ha vissuto da una posizione privilegiata, non solo come cantante degli Outrage, ma grazie alla prima rivista metal realizzata in Italia, quel HM che gli ha permesso di intervistare e conoscere di persona molti dei grandi del metal mondiale oltre ad istruire a dovere molti metallari della nostra penisola. Tanta la carne al fuoco, quindi, per cui lasciamo lo spazio a chi di cose da raccontare ne ha in quantità, senza dimenticarci di ringraziarlo per la sua disponibilità e dedicare queste righe a Luca e ai tanti amici dell’epoca che purtroppo non avranno l’occasione di leggerla e magari prenderci in giro per qualcosa che abbiamo detto. Buona lettura.
Ciao, prima di tutto grazie per aver accettato di rispondere a queste domande. Cominciamo da come è nata la tua passione per il metal. Ricordi come sei entrato in contatto con la musica che ti accompagna da così tanto tempo e come era scoprire un nuovo universo prima dell’avvento di internet?
Vincenzo Barone: Ciao, grazie a te per avermi chiesto di scambiare queste quattro chiacchiere: è sempre un piacere. Ricordo benissimo come nacque questo Amore che mi accompagna ancora oggi… Io sono di Roma e vengo da un quartiere a ridosso di Trastevere che si chiama Monteverde Vecchio: ogni domenica lì sotto c’è il leggendario mercato di Porta Portese. Mio padre un bel giorno mi regalò 5000 lire per il mio onomastico ed io andai lì a cercare qualcosa da comprarmi. Avevo dodici o tredici anni e finii per acquistare, semplicemente attratto dai curiosi tipi in copertina, Dressed To Kill dei Kiss. Fu un colpo di fulmine; non appena tornato di corsa e curiosissimo a casa e la puntina dello stereo di mia madre (che è di Portorico, un governatorato statunitense pur essendo la più piccola delle grandi Antille – Cuba ed Haiti le altre isole principali; fu lei a iniziarmi all’ascolto, sebbene passivo, di cose diverse dalla melodia tipicamente italica, andando da Elvis ai Platters, da Pat Boone ad Edith Piaf) si posò sul vinile, la mia vita cambiò completamente. Si andava “ad istinto”: erano davvero altri tempi. Incontrai così per “caso” il mio Destino…
Abbiamo condiviso una parte della nostra formazione musicale e quel periodo ha in qualche modo influenzato tutta la nostra storia di ascoltatori: cosa ricordi con più piacere di quei tempi e dei pomeriggi passati tra Revolver e il Pantheon?
Beh, da Revolver ci ho iniziato a lavorare non appena finiti gli studi di ragioneria, ci ero cresciuto avviando e poi sviluppando una serie di rapporti e conoscenze che, siamo qui a dimostrarlo, sono rimasti vivi fino ad oggi in molti casi. Aggregazione, senso di appartenenza e grande desiderio di condivisione: erano questi i binari su cui poi si è dipanata tutta una vita…
Una cosa che molti mi hanno fatto notare è la naturalezza con cui noi italiani e, in particolare romani, ci approcciamo alla storia. Per noi stare seduti introno alla fontana di fronte a quel monumento o sulle scale di Piazza di Spagna era la cosa più normale del mondo eppure, se ci pensi, non è che tutti possano permettersi simili scenari. Credi che questo contatto continuo con memorie della nostra storia e, comunque, vivere in una città particolare come Roma, abbia in qualche modo avuto un impatto sul modo di vivere il metal?
Sarò forse un tantino spoetizzante, ma credo che noi romani conserviamo quella strafottente guasconeria, quella indolenza laconica e gigiona, quel gusto per la battuta a tutti i costi a volte anche greve e pesantuccia, anche nel rapporto con la Musica, col Metal in questo caso. Più che essere la Storia ad influenzare in qualche modo l’attitudine di chi nasce all’interno del famigerato Raccordo Anulare, direi che è l’ambiente, tutto su un piano più triviale: non cattivo o astioso, ma decisamente dissacratorio e sarcastico…
Un luogo decisamente importante per la scena era il negozio di dischi Revolver in cui hai lavorato, ci si incontrava lì il sabato, si ascoltava musica, ci si scambiavano notizie e consigli, giravano riviste straniere e ‘zine su cui reperire notizie e preziose informazioni. Credi esista ancora quella funzione aggregatrice dei negozi di dischi ancora attivi o è cambiato per sempre anche quel tipo di approccio?
Negozi di dischi ormai ce ne sono pochi: tutti quelli che svolgevano la funzione aggregatrice a cui fai giustamente riferimento non esistono più. Diciamo che tutto è cambiato ed oggi la “comitiva” di fronte al negozio di fiducia non la vedi manco scannato. Internet, i social, i cellulari con settemila funzioni di contatto e piattaforme virtuali di ogni tipo ed uso, hanno soppiantato il vecchio modo di socializzare, inesorabilmente. Certo, magari nei piccoli centri un certo modo di vivere la comunanza di gusti ed interessi ancora esiste, ma nelle grandi città, a parte casi sporadici e del tutto fortuiti, la ritualità dell’incontro è andata perduta del tutto…
Dopo un iniziale periodo di diffidenza, le scene metal e punk cominciarono a toccarsi e influenzarsi a vicenda, parlo del periodo del primo crossover e della ventata di aria fresca che il thrash portò nel metal, con un deciso spostamento verso l’estremismo. Penso anche ad un programma radio come The Outer Limitz e all’alternare brani metal e hardcore o alle ‘zine come Rrroooaaarrr (scusa l’auto-citazione) che parlavano di Anthrax e Suicidal Tendencies, Crash Box e Mayhem senza troppe distinzioni. Che impatto ebbe su di te come ascoltatore e come modificò, se lo fece, le dinamiche all’interno della scena romana?
Personalmente trovai la contaminazione del tutto positiva e vantaggiosa per ambo le parti in causa. Già vivevo e frequentavo senza alcun problema un bel po’ di punk, specie quelli più vicini all’hardcore, quindi per me fu naturale accettare di buon grado che certe evidenti assonanze divenissero “istituzionali”. C’erano già svariati dischi hardcore fra quelli che ascoltavo puntualmente (da buon thrasher della prima ora, diciamolo), quindi fu un fenomeno fluido e quasi naturale. La scena romana ovviamente visse lo stesso processo ed una involontaria “parentela” fra le due scene, che era in precedenza nata a livello fortuito, divenne fonte di veri e propri gemellaggi e collaborazioni davvero valide.
Ricordo come certe spaccature tra varie forme di metal arrivarono solo dopo, penso ad esempio ai bill di concerti in cui non era difficile trovare Fingernails, Machine Head, Raff, Outrage, Schwartz (solo a fare qualche nome) condividere un palco senza troppi problemi. Hai qualche ricordo o aneddoto in particolare su quel periodo? Ok, lo ammetto, non si può non correre con la mente alla serata al Don Orione.
Sfondi una porta aperta: quel concerto lo organizzai io per il lato artistico/promozionale, e fu un lavoraccio. Tengo a fare una precisazione che, mi auguro, dipani finalmente un misunderstanding rispetto alla location di quel concerto ormai famigerato, del quale si raccontano storie ormai vicine al mito più che alla leggenda… Il posto era il Teatro Orione, senza il “Don”, che era invece l’oratorio posto di rimpetto. Era un teatro vero e proprio, con stucchi, velluti e pure la buca per l’orchestra. Comunque hai ragione sull’aspetto artistico: il bill di quella giornata fu volutamente ad ampio raggio, coinvolgendo realtà della scena capitolina (a parte il gruppo di apertura, i casertani hard rockers T.R.B.) che fossero diverse e coprissero il concetto di “Metal” nella sua accezione più ampia. Volevamo unire, non certo dividere… Un aneddoto? L’altra persona che curò l’organizzazione con me (ma fu lui a coinvolgere me, non il contrario: l’idea fu sua) fuggì a metà serata con l’incasso, che aveva superato le più rosee aspettative visto il totale tutto esaurito del posto, che poi portò all’intervento in sala delle forze dell’ordine a sedare le mischie furibonde sottopalco, scoppiate (lo dico con un certo orgoglio) proprio durante l’esibizione degli Outrage, il gruppo in cui militavo in veste di cantante… Ma è una storia lunga…
In fondo, gli Outrage rappresentano perfettamente quel momento e il fermento che ne conseguì, ricordi come vi siete formati e come andarono le cose? Chi faceva parte della band al tempo?
Allora, gli Outrage furono fondati (con un nome diverso e con il desiderio della formazione a quattro elementi, tipo i Metallica, tanto per intenderci) nel 1985 da tre amici e compagni di scuola: Luca Cataluffi (basso), Antonio Filosa (chitarra) e Fabrizio Deana (batteria), ai quali si unì poco dopo Cristiano Battaglia (chitarra e voce). Prime timide prove, poi la scelta di trovare un fesso che coprisse il ruolo di cantante, ed ecco che entro in scena io. Ci incontrammo con Luca, Fabrizio e Antonio ad un concerto dei mitici Raff all’Eur e facemmo subito amicizia, da bravi metallari con comunanza di gusti. Una o due o tre birre dopo, mi chiesero di entrare nella band. Nell’arco di un paio di giorni feci un provino decisamente casereccio e mi presero senza troppe tribolazioni, cambiammo nome in Outrage, ed iniziammo a fare danni…
Tre demo e un album che non ha mai visto la luce e che oggi hai deciso di condividere con i tanti che hanno vissuto quei giorni o ne hanno magari solo sentito parlare, cosa ti ha portato a questa decisione dopo tutti questi anni e che effetto ti fa vedere finalmente resa giustizia ad una parte importante della tua vita?
Gli Outrage al tempo fecero la “trafila” tipica delle band underground italiche e realizzammo tre demo a coronamento di una costante attività live, che devo dire non fu avara anche di discrete soddisfazioni e di un riscontro lusinghiero anche nella vendita delle cassette che immancabilmente ci portavamo dietro, o scambiavamo con quelle di altri gruppi, o distribuivamo in modo amatoriale nei negozi specializzati di fiducia in giro per l’Italia, con qualche sporadica sortita all’estero. La storia degli Outrage si divise in due parti ben distinte: il quintetto di partenza e che ti ho descritto, restò compatto fino a dopo l’uscita del secondo demo (omonimo) per poi mutare per 3/5 (con l’ingresso dei chitarristi Daniel Habib e Francesco Virgili e del batterista Paolo Piccini, già mio “socio” in HM) che si unirono a Luca e me, prima di intensificare di molto l’attività concertistica. Luca Cataluffi decise poi di mollare amichevolmente, perché non più interessato specie all’attività concertistica, e restammo quindi in quattro (io passai ad occuparmi pur indegnamente del doppio ruolo di bassista/cantante) e realizzammo prima il terzo demo “You Must Die” (era il 1989), ed in seguito registrammo gli 11 brani che dovevano comporre l’esordio su lp, che si intitolava Open Wounds, ma che alla fine, per nostra stessa decisione, non vide mai la luce. Lo chiudemmo in un cassetto per una serie di ragioni che in questa sede sarebbe lungo e tedioso spiegare, pensando di farlo uscire semplicemente più in là. Alla fine quel “più in là” è durato 26 anni! Le pizze dell’album (niente file, eravamo “antichi”) sono rimaste in mio possesso per tutto questo tempo e solo ora mi sono deciso a far uscire quel materiale – corredato ed integrato anche da 9 pezzi tratti dai demo e dalla compilation su vinile Lethal Noise, uscita nel 1988 – principalmente per omaggiare la memoria del povero Luca, scomparso prematuramente, e perché mi è parso giusto “chiudere il cerchio” e dare agli Outrage una degna “sigla di chiusura”, a coronamento di un’attività che fu una parte entusiasmante della mia vita e, credo, anche di tutti coloro che sono transitati nel gruppo. Il risultato di questa decisione (per la quale ho avuto naturalmente il benestare entusiastico di tutti gli altri ex componenti) porta il titolo di (Still) Open Wounds (naturalmente…), un cd di 20 pezzi che sta ricevendo una accoglienza lusinghiera (bontà di tutti) sia fra i vecchi metallari che ci videro malauguratamente in azione al tempo, e sia fra i nuovi thrasher curiosi e vogliosi di un po’ di sana old school… Ne sono molto contento e soprattutto credo che il buon Luca avrebbe molto gradito. Lo immagino sorridente e divertito nel sussurrarmi: “E cell’hai fatta finarmente, eh Baro’?”…
In fondo, correggimi se sbaglio, credo che il gruppo Facebook di H/M e i social abbiano in qualche modo aiutato questa decisione, quindi non tutto il progresso viene per nuocere. Che ne pensi e che rapporto hai con la rete?
Hai assolutamente ragione. Negli ultimi anni, anche grazie al grande revival delle sonorità e dei gruppi “vintage” legati a quel preciso periodo storico della nostra amata Musica, attraverso i social ho più volte ricevuto richieste rispetto alle cose registrate dagli Outrage al tempo: amichevoli ma reiterate pressioni che alla fine hanno non poco aiutato la decisione di pubblicare finalmente tutto il “crimine” sonoro perpetrato dalla vecchia cricca. Con la rete ho un rapporto un po’ ambivalente (il troppo è troppo in tutto), ma trovo che fondamentalmente sia tutto positivo se usato con oculatezza e senza “sputtanarsi” a nessun livello…
A proposito di Facebook e del gruppo da te gestito, facciamo una deviazione dalla band e parliamo di un altro pezzo della tua vita, quello legato alla prima rivista metal italiana, un bel salto dal mondo delle ‘zine fotocopiate e dell’approccio diy. Tempi pionieristici a dir poco. Come andarono le cose?
Già, gran bei ricordi… Prima della mia esperienza in quel di HM, avevo avuto solo estemporanee ed episodiche incursioni nel mondo del pur pionieristico e coraggioso giornalismo musicale metal: qualche pagina scritta qua e là, più per divertimento che altro, ed un paio di sortite radiofoniche. Poi iniziai a fare il commesso da Revolver, il negozio di dischi a cui abbiamo già accennato, e tutto cominciò da lì. Un bel giorno l’ideatore di HM, Federico Ballanti (già apprezzata “penna” di Ciao 2001, Music, Blu ed un paio di altre testate musicali prettamente generaliste a livello contenutistico), si presentò al negozio e parlò al titolare della sua iniziativa per l’epoca folle (era il 1985), chiedendo una selezione di dischi per avviare una serie di recensioni in cambio della citazione del nome del negozio sul giornale. Fui incaricato io, in quanto commesso metallaro, di scegliere e portare i dischi a Ballanti in redazione. Di lì a poco mi fu chiesto di collaborare anche come “penna” ed accettai. Iniziò tutto con una rubrica dedicata alle videocassette di settore.
Ti va di raccontarci qualcosa di quella esperienza? Come vivevi al tempo la possibilità di conoscere di persona e intervistare gli eroi della scena metal?
Ovviamente procedette tutto per gradi. Dai video passai a recensire anche dischi, poi mi fu affidata la rubrica dei demo italiani, poi coprì tutto il settore anche facendo interviste agli eroi nazionali, per finire con la schiera di gruppi ed artisti internazionali che animavano quella che, non a torto, ancora oggi non si fa fatica a definire “l’epoca d’oro” del Metal a livello mondiale. Era tutto come un sogno: i poster che fino a quel momento coprivano le pareti della mia stanza divennero persone vere, incontri, chiacchierate, concerti, conferenze stampa, viaggi, strette di mano… Alla lunga l’impegno aumentò e dovetti mollare il lavoro a negozio, per iniziare a dedicarmi a tutto tondo alla professione giornalistica e redazionale per la testata e per la casa editrice tutta. Incredibile: venivo pagato per fare ciò che più amavo… facevo fatica a crederci…
Torniamo agli Outrage e a (Still) Open Wounds, hai scritto che il disco rappresenta un po’ l’entrare in un negozio angusto e polveroso in cui scoprire per caso il disco di un gruppo di cui si ricorda a malapena il nome, a te che effetto ha fatto invece tenere in mano il cd e ascoltare il risultato dei tuoi sforzi, che emozioni ti ha portato aprire il cassetto dei ricordi?
È stato strano, credimi. All’inizio non nascondo che ho avuto un po’ paura: materiale vecchio di oltre venti anni riportato alla luce, figlio di una realtà che era stata solo sano divertimento e poco più, temevo diventasse un po’ risibile e fine a sé stesso. Poi però, a lungo andare, l’entusiasmo che andava creandosi intorno al progetto, la spinta delle persone coinvolte, i sorrisi entusiasti degli altri ex componenti della band ai quali mi rivolgevo per chiedere l’assenso a portare avanti l’idea e, diciamocelo, il gusto per la sfida e la testardaggine che non mi è mai mancata, hanno reso tutto una realtà. Emozionato e quasi stupito, ho ricevuto un sacco di complimenti e la cosa sta avendo un riscontro davvero lusinghiero (approfitto anzi dello spazio che gentilmente mi concedi per ringraziare tutti di vero cuore). Non ti nascondo che non è mancato chi ha cercato di mettermi i bastoni fra le ruote (immancabilmente, per le ragioni più varie ma sempre abbastanza meschine e infami… mah), ma ciò che conta è che il traguardo è stato raggiunto ed oggi siamo qui a parlarne…
A parte Luca, che purtroppo non è più con noi (come purtroppo tanti amici di quei tempi), sei ancora in contatto con gli altri membri degli Outrage? Che è successo ai membri della band una volta sciolta?
Con Paolo Piccini e Daniel Habib sono rimasto in contatto praticamente sempre, nonostante le contingenze della vita ci abbiano separati logisticamente: certe Amicizie (lo scrivo volutamente con la “A” maiuscola) non finiscono mai. Fabrizio Deana l’avevo un po’ perso di vista a dire il vero, ma contattarlo non è stato difficile ed abbiamo ripreso le fila di un rapporto in cui si è dimostrato essere una gran persona ed un uomo coerente e dallo spirito indomito, mutuato dal mondo biker di cui fa orgogliosamente parte. Cristiano Battaglia fa un mestiere di quelli seri in giacca e cravatta, ma è stato lui a farsi avanti una volta saputo del progetto ed è stato bello ritrovarlo. Antonio Filosa e Francesco Virgili sono purtroppo spariti nel nulla: nonostante i vari social, le conoscenze comuni ed una ricerca che dura tuttora, li ho persi di vista e non sono in nessun modo riuscito a trovarli. Ho notizie frammentarie e di seconda o terza mano. Piccini nel dopo Outrage ha come è ben noto cantato a lungo nei grandi Growing Concern, band hardcore romana molto conosciuta, mentre Fabrizio Deana ha militato ancora a lungo nella scena capitolina, prestando i suoi servigi dietro ai tamburi in più di un gruppo negli anni, Hydra su tutti.
Se dovessi indicare tre motivi/caratteristiche degli Outrage che al tempo hanno portato la band a far breccia nel pubblico e che ancora la rendono meritevole di essere ricordata, quali sarebbero?
Beh, innanzi tutto direi il cattivo gusto! No, scherzo, non saprei: probabilmente questa domanda dovresti farla a chi non è stato coinvolto in prima persona nella band. Comunque direi naturalmente la passione per i suoni estremi dell’epoca condivisa fra noi e con coloro che ci ascoltavano (non ce la tiravamo affatto e, anzi, un certo imbarazzo autoironico era sempre ben presente in ognuno dei membri della band: ci sembrava davvero strano che qualcuno potesse realmente gradire il caos che creavamo, credimi). Poi, non so, la voglia di divertirsi e di stare tutti insieme, condividendo viaggi e situazioni, incontri e scemate, che penso trasparisse non poco e per finire, credo sia il caso di dire, non certo per retorica o affetto, che fosse proprio Luca l’epicentro di una certa attenzione e simpatia per gli Outrage. Non è un caso che (Still) Open Wounds sia dedicato alla sua memoria: un uomo buono, generoso, affabile e dalla follia goliardica sempre in prima linea. Anche polemico e brontolone, ma era per noi e per chi ci seguiva al tempo, una sorta di simbolo, un catalizzatore dalla verve dissacratoria a volte irresistibile: è stato uno dei nostri punti di forza.
Quali, invece, i tre momenti che ricordi con maggior affetto della storia della band? Cosa credi si perda chi ha una band oggi e cosa avresti voluto avere allora di ciò che hanno le band di oggi?
Parte della risposta alla tua domanda è insita nella domanda stessa: molto di ciò che caratterizzava e cementava il sodalizio umano e creativo delle band del tempo era ovviamente l’amicizia, il rapporto umano, le prove, le uscite tutti insieme, i pasti divisi e condivisi, le mamme che si preoccupavano, il profilo pionieristico e amatoriale, la scoperta e la creazione, seppur inconsapevole, di un mondo sotterraneo e nuovo, di una realtà aggregativa che poi fu chiamata underground. Cose che magari oggi vengono un po’ date per scontate, se non a volte saltate a piè pari. Certo, l’evoluzione tecnica anche a livello di macchinari e impianti oggi ha reso tutto più approcciabile e professionale, ma andare avanti con “scotch e sputo” era ben altra cosa. Ricordo il primo concerto, ovviamente (l’unico al quale vennero addirittura i miei sgomenti genitori), la cui locandina la trovate nel cd, ovviamente, nella foto dietro al trasparente che ospita il dischetto. Poi, ricordo l’espressione di Tom Araya quando io e Paolo Piccini, lì in veste di giornalisti, a fine intervista gli regalammo una copia del nostro terzo demo “You Must Die” e lui simpaticamente ci chiese di tradurgli il titolo in italiano: gli piacque il suono di “dovete morire” e lo urlò la sera stessa dal palco in quel di Milano (il punto più alto della carriera degli Outrage, ma lo sapevamo praticamente solo noi fino a questo momento). Infine ricordo l’immensa emozione provata quando durante qualche nostro concerto ci accorgevamo che qualcuno dei ragazzi del pubblico urlava un coro o una frazione di testo: capire che qualcosa di nostro fosse divenuta anche di altri era davvero da brividi lungo la schiena.
Inutile chiederti se ti consideri ancora un metallaro e se il metal ha ancora un peso fondamentale nella tua vita quotidiana. Ascolti ancora nuove band e, in caso affermativo, ti va di darci un tuo parere da “vecchio saggio” sullo stato della scena metal attuale e su qualche band cui varrebbe la pena dare un’ascoltata?
Ovviamente sì: mi considero ancora un metallaro, anima e cuore. La colonna sonora della mia vita è rimasta quella, costantemente: anche attraverso le esperienze professionali più lontane dal quel contesto in cui sono incappato nel corso del cammino di un’esistenza. Ascolto vecchie e nuove band, continuo a seguire quelle che ho sempre amato (quando ancora in attività) e scopro sempre nuove fonti di entusiasmo ed interesse. La scena metal attuale non è priva di talento e di realtà assolutamente di rilievo ed altamente competitive, ma forse – ed è solo il mio parere, ci mancherebbe – la quantità globale ha finito per andare a scapito della qualità, dell’estro, dell’unicità. Mi spiego: un tempo i nomi da seguire erano relativamente pochi, la scena sì molto eterogenea e diversificata, ma fondamentalmente non così iperfrazionata e inflazionata come oggi. Troppe band, troppe uscite (molte, a volte, troppo simili tra loro), troppi generi e sotto-generi, ed un pubblico che opera le sue scelte spesso sotto un costante bombardamento di nomi fra i quali, alla fine, riesce difficilissimo scegliere o distinguere due o tre preferiti. La proposta si è decuplicata, la qualità tecnica molto accresciuta mediamente, i suoni si sono il più delle volte attestati su posizioni standardizzate certo all’eccellenza (ma negando parte della necessaria, a mio giudizio, riconoscibilità di una proposta rispetto ad un’altra in conclusione), i ragazzi che suonano sono la gran parte: tutto bello. Ma il “guizzo”? Quel quid che rende un gruppo potenzialmente destinato a passare alla storia? Ad essere riconoscibile o ad incarnare un intero fenomeno? Spesso si finisce per guardare indietro, te ne sei accorto? I gruppi degnissimi di attenzione ci sono, ma riusciranno a trovare uno spiraglio di luce in mezzo ad un mucchio tanto enorme? Fare dei nomi vorrei evitarlo, per non fare poi torto a nessuno, ma vorrei solo che ci fosse ancora quel desiderio di “innamoramento” per tre o quattro band, o cinque o sei (è relativo) che finisse per portare un nome ad essere davvero grande. Per tutti. Per sempre.
Ok, credo di essermi dilungato anche troppo, non voglio approfittare troppo della tua disponibilità, per cui chiudo lasciandoti spazio per aggiungere quello che credi mi sia scordato e per dire ai lettori come ottenere (Still) Open Wounds. Grazie mille ancora…
Grazie a te per l’ospitalità e l’interesse e scusa tu se sono stato io a dilungarmi troppo: noi vecchietti siamo così: quando si attacca a parlare… È stato un piacere ed un privilegio rispondere alle tue domande, tenendo anche in considerazione che, in tutta sincerità, non sono abituato a stare io dalla parte di chi risponde. Spero di aver appagato le tue curiosità e non aver annoiato troppo i tuoi lettori, che comunque ringrazio per aver avuto la bontà e la pazienza di arrivare fin qui. Volevo ringraziare inoltre tutti coloro che hanno mostrato interesse e richiesto il cd degli Outrage (davvero numerosi) ed hanno mostrato di gradire: ho ricevuto moltissimi messaggi di riscontro e devo dire che il tutto è stato lusinghiero fino all’imbarazzo, davvero. Grazie di cuore a tutti. (Still) Open Wounds è sempre disponibile per chi fosse interessato, semplicemente scrivendo alla pagina Facebook dedicata appositamente al cd, o contattando direttamente me via Messenger sul profilo Facebook oppure, sempre via Messenger, dal gruppo HM – Il Primo Nell’Heavy Metal – OFFICIAL. Vi saranno inviate le coordinate per avere il cd, senza alcun altro tramite o riferimento: semplicemente. Come si faceva “una volta”. Grazie ancora e keep on thrashin’…