OUGHT, Room Inside The World
Il passaggio da Constellation Records alla Merge per questo terzo album dei canadesi coincide con quella che potremmo definire una generale operazione di lavorio sugli angoli e sugli spigoli dei dischi precedenti. Il post-punk intricato e cerebrale con cui si erano fatti notare all’epoca di More Than Any Other Day (2014) viene arrotondato e disteso, lasciando spazio a una sensibilità pop più marcata rispetto al passato e al contempo costruendo con maggior respiro e incisività i momenti in cui il suono pare incartarsi o ripiegarsi su sé stesso. “Disgraced In America” è in questo senso quasi esemplificativa, una traccia simil-Strokes che con nonchalance collassa in un controllato subbuglio chitarristico per poi approdare ad atmosfere più ariose e amare. Ma anche i guizzi e i crescendo di violino e chitarra che scorrono paralleli in “These 3 Things”, o gli scarti asimmetrici e gli inciampi nell’impianto alla Joy Division di “Disaffectation”, appaiono come strumenti per mettere in scena quella nervosa inquietudine di cui gli Ought si son sempre fatti algidi e asciutti interpreti. La nuova dimensione trovata in Room Inside The World non stempera, semmai allarga, quelle note di irrequietezza – maneggiata con eleganza vagamente art-punk – che sono loro proprie, anche se non sempre la nuova formula riesce a centrare l’obiettivo, specie nella seconda parte dell’album, come nello slow-core piuttosto innocuo alla Idaho di “Brief Shield”. In ogni caso, la direzione presa è interessante e Room Inside The World rimane un disco riuscito che alza le aspettative su quello che i quattro potrebbero fare in futuro.