Ouch My Generator!, 17/10/2014
Londra, Underworld. Grazie Ajit Dutta per le foto.
“All dayer live doom, sludge and post-hardcore bands”.
Questo recitava il flyer dell’ evento che si è svolto il 17 ottobre.
Organizzato da Nightshift Promotion in collaborazione con The Underworld Camden, questo festival è stato finora uno degli eventi più attesi dell’autunno londinese.
Il primo punto a favore dell’Ouch My Generator! è l’ottima posizione: è difficile infatti che qualcuno non conosca l’Underworld, locale di spicco della rinomata Camden Town, situato esattamente di fronte all’entrata dell’omonima stazione della metro. Un altro vantaggio è l’estrema varietà di generi e band, che lascia spazio ai gusti dei diversi appassionati che si sono dati appuntamento a partire dalle 15 all’ingresso del locale. Comunque, quasi la Regina non voglia che questa calda colata di pece si riversi sulla capitale della sua aristocratica Albione, le linee principali della metropolitana sono chiuse per lavori di manutenzione. Non mi rimane altro da fare che girare attorno a Camden con le linee periferiche, arrivando giusto in tempo per l’apertura del locale, sollevando il braccio per poi esclamare: “Ancora una volta il metal ha vinto!”.
I primi ad esibirsi sono i Meadows, chiamati all’ultimo momento per rimpiazzare i beniamini locali dello stoner Slabdragger, in quanto, sfortunatamente, il loro cantante-chitarrista è stato ricoverato in ospedale per un collasso polmonare. Il quartetto stoner/sludge di Sudbury propone uno show di pura violenza, cadenzato da riff graffianti e ritmi spacca-cervello, nel corso del quale quasi tutti i membri della band si danno il cambio alla voce, così da mettere gli ancora pochi presenti nella condizione di calarsi in atmosfere cupe ma coinvolgenti, nonostante siamo ancora nelle prime ore del pomeriggio. Sette pezzi in poco più di mezz’ora, a ripercorrere tutta la discografia della band, compreso “Loaded The Gunwales”, contenuto nello split del 2013 proprio con gli Slabdragger, a voler omaggiare l’amico costretto in ospedale.
A seguire arrivano i Mine: quattro giovani ragazzi, girati di spalle, iniziano il loro show con un’introduzione lenta e composita, che si sviluppa poi in un crescendo di rabbia e disperazione, come da tradizione della più recente scuola post-hardcore/screamo. I pezzi presentati sono caratterizzati da una chitarra melodica e malinconica di chiara influenza post-rock che si mischia energicamente a un suono di basso più ritmato e sostenuto, andando a creare un vortice di nerissimo livore che ricorda alcune band che hanno suonato in zona di recente, come gli americani The Saddest Landscape. La band, attiva da poco più di due anni, ha pubblicato due ep e un singolo per Cult Culture, in cassetta e vinile.
Quella che considero la vera rivelazione della giornata è la terza band, i Telepathy, un quartetto di Colchester/Rewa che subito attira la mia attenzione. L’accuratezza con la quale i pezzi vengono eseguiti lascia a bocca aperta me e gran parte del pubblico ora presente in sala. Un tiro di batteria assolutamente inattaccabile, una precisione maniacale e una straordinaria omogeneità tra i vari musicisti che compongono la band costringono tutti ad avvicinarsi al palco per poter carpire anche l’ultima nota. Le influenze identificabili passano dal post-rock al math-core, generi che comunque la band riesce a rendere propri e originali, cosa non da tutti. Se dovessi associarli a qualcuno, forse li paragonerei ai primi Russian Circles. Lo show si concentra prevalentemente sulla resa live del loro ultimo album, 12 Areas, la cui copertina realizzata da Alex Cf non può che aggiungere valore a composizioni già degna di nota da sole. Ancora un applauso a loro.
Riportare l’atmosfera su tonalità più scure è compito affidato ai Bast, che propongono quattro pezzi dalle sonorità sludge: voce divisa tra chitarrista e batterista, ritmi ripetitivi che ipnotizzano l’audience, influenze crust e alternanza di momenti più e meno veloci che ricorda i compianti Fall Of Efrafa. Nel frattempo il locale inizia a riempirsi, le teste dei presenti ondeggiano silenziosamente lasciandosi cullare dai riff del trio londinese.
È poi il turno dei quattro svizzeri Kruger. Bastano poche note per capire che le cose qui iniziano a farsi serie. Se non avete mai sentito parlare di questa band di Losanna, sarà il caso che iniziate a informarvi sul suo conto: attitudine punk, influenze stoner e ironia sono i tratti che la contraddistinguono. Le persone presenti in sala cominciano a essere veramente tante, il caldo soffoca e Renaud decide così di battezzare i presenti con della birra. Il live è isterico e non lascia spazio di ripresa, tutti i componenti della band sono in costante movimento, ma il vero showman è lui, proprio Renaud, che salta da una parte all’altra del locale, si arrampica, fa le capriole. A un certo punto scende a baciare in fronte le poche ragazze presenti: alcune appaiono in leggera difficoltà, altre compiaciute. È difficile togliergli gli occhi di dosso. La band esiste da più di dieci anni, ma si concentra in prevalenza sul materiale più recente, lasciando spazio anche a “The Wild Brunch”, tratta dall’lp del 2013 “333”, nel quale prende in giro i vegetariani.
A tingere nuovamente di nero le mura dell’Underworld ci pensa il quartetto sludge/doom degli Undersmile. Originari di Witney, gli Undersmile sono formati per 2/4 da ragazze, due sorelle, le vere protagoniste dello show. Se infatti i maschi suonano in penombra (il chitarrista girato di spalle), su di loro vengono invece puntati i riflettori: è difficile non rimanere incantati dalle voci e dai riff ipnotici che propongono. Vittima dello scarso tempo messo a sua disposizione, la band riesce a suonare solo due pezzi, scusandosi per la breve scaletta. In realtà, quello che si prova ad assistere a uno show degli Undersmile può essere paragonato all’essere proiettati dentro a grandi classici di film sulle streghe, come “Haxan: la stregoneria attraverso i secoli” di Benjamin Christensen o in “Witch’s cradle” di Maya Deren. Voglio dire, se mai mi capitasse di essere la vittima sacrificale di un sabbath, penso che come sottofondo vorrei “Titanaboa” degli Undersmile. Chi ha già comprato i biglietti per il Roadburn avrà modo di vederli alla prossima edizione del festival.
Sono le 20 e il festival sta per sganciare le sue tre bombe. Il locale è ormai pieno e io inizio a far fatica a trovare lo spazio per prendere appunti sul mio quaderno. Accanto a me dei ragazzini tengono in mano la loro cassettina dei Bastions. A un certo punto vedo invece un ragazzone saltare sul palco. Qui non c’è più tempo da perdere. La band attacca subito con una violenza viscerale, il ragazzo inizia ad agitarsi e a urlare, fortemente influenzato da quelle movenze che caratterizzano l’old-school hardcore, nonostante la proposta del suo gruppo sia molto più vicina al filone più emotivo e viscerale di questo genere, quello cioè che ha caratterizzato la scena negli ultimi anni. La folla, intanto, finalmente si scuote, nonostante i divieti posti su quasi ogni muro del locale che recano la scritta “No stage diving”. Fin dal loro album di debutto Island Living (2010) i Bastions si sono affermati come una delle realtà hardcore più interessanti dell’intera Gran Bretagna: i pezzi si susseguono uno dopo l’altro senza sosta e si ripercorre quasi tutta la carriera musicale dalla band, per poi soffermarsi, in ultimo, sui brani dello split uscito da qualche settimana con i Burning Bright, intitolati “Faust” e “Old Guard”. Ed è su questi che il frontman dà il meglio di sé, regalandoci dei brividi quando si allontana dal microfono e in un silenzio suggestivo urla un pezzo di “Old Guard” per poi correre verso la folla prendendo il microfono in mano e ricominciando a urlare esattamente quando gli altri membri ricominciano a suonare. L’unica cosa che posso fare è applaudire, tirare fuori il cellulare e scrivere al mio ragazzo “Finalmente qua c’è della tamarranza tupatupa come piace a me!”.
Non faccio in tempo a ripigliarmi che sul palco salgono i Coilguns. Il trio svizzero è composto da musicisti che fanno parte anche dei The Ocean e questo non fa che creare molte aspettative nel pubblico, che non vengono assolutamente deluse. Posso dire che il loro è uno dei migliori live a cui ho assistito ultimamente. Unendo elementi “post” e math e avvicinandosi a band come gli At The Drive In o i primi The Dillinger Escape Plan, i Coilguns riescono a creare atmosfere suggestive e sonorità esplosive sostenute dalla grandiosa presenza scenica del loro frontman, il quale, se da un lato spaventa la platea con movimenti autistici e sconnessi, dall’altro attira l’attenzione con numeri inaspettati, come correre da una parte all’altra del locale legando con il filo del microfono tutti coloro i quali si trovavano al centro della stanza. Del resto, sulla loro pagina Facebook c’è scritto che i suoi ruoli nella band sono vocals e “crowd fighting”. Ma la vera sorpresa è vederlo imbracciare la chitarra sull’ipnotica “Earthians”, contenuta nell’lp del 2013 Commuters, regalandoci otto minuti di noisecore viscerale ed emotivo.
E finalmente arriva il momento che tutti stavamo aspettando da ore. Coperta da una lunga tunica bianca, Caro degli Oathbreaker fa il suo ingresso sul palco dell’Underworld. Mi è molto difficile trovare delle parole per riuscire a rendere l’impatto visivo-emotivo del loro live. I pezzi scelti per lo show sono tratti da Eros|Antheneros e dal meno recente Mælstrom. Si inizia con “No Rest For The Weary”, forse uno dei brani più veloci e ritmati della band, sicuramente uno di quelli con le tinte più black. La sua resa live non lascia spazio a incertezze, viene tutto eseguito con precisione e compostezza. Al centro del palco, lei. Piedi nudi, capelli sciolti tenuti davanti alla faccia per tutto il tempo dello show, quasi a voler coprire una timidezza che però non combacia con la potenza della voce. La scaletta alterna momenti veloci a momenti più riflessivi, come “As I Look Into The Abyss” / “The Abyss Looks Into Me”, eseguiti uno dopo l’altro, con il pubblico ormai sulle nuvole, tra l’evanescenza della figura di Caro e i riff onirici dei brani. Il tutto si conclude con uno dei loro pezzi più celebri, “Glimpse Of The Unseen”, sul quale il pubblico non può fare a meno di muoversi e pogare, lasciando spazio a tutte le emozioni trattenute nei 50 minuti di live. Unica pecca, un problema tecnico del basso, che ha portato il bassista a cambiare strumento e cassa. Ma cosa può essere questo in confronto a un live che per intensità e perfezione s’è avvicinato ad una liturgia?
Qualora ve lo stiate chiedendo, ho avuto l’onore e la fortuna di passare un po’ di tempo con Caro dopo il concerto. Oltre a essere ancora più bella di quanto può sembrare online, è anche una ragazza simpatica e gentile che mi ha detto che non vede l’ora di poter suonare nel nostro Paese. E noi li aspettiamo!