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OTU, CLAN

Il lavoro d’esordio degli OTU, uscito per Dischi Bervisti e Hashtag, è ambizioso, complesso e senz’altro ben riuscito. CLAN, questo il nome dell’album, miscela sample e groove con la batteria di Francesco Crovetto e la chitarra di Isaia Invernizzi. Il duo definisce la propria musica come hip hop strumentale, cinematico e sperimentale: in sostanza, l’unico punto fermo è il ritmo fortemente cadenzato. Per il resto, i pezzi si aprono spesso su atmosfere sognanti ed eteree, che richiamano il post-rock e la psichedelia.

CLAN è una popolazione, una molteplicità: ogni pezzo è “dedicato” a una traccia vocale, che sia quella di Muhammad Ali o di un perfetto sconosciuto, in quest’ultimo caso estrapolata dalla  rete. Con il concetto di autorialità cancellato dai campionamenti e dalle tante voci, umane e non, che attraversano il disco, è come se stessimo viaggiando nei meandri della memoria di un cervello elettronico. Potrebbe rafforzare questa interpretazione il fatto che l’ultimo pezzo sia dedicato agli istanti di vita finali di HAL 9000, il celebre computer di bordo della nave spaziale Discovery in “2001: Odissea nello spazio”. Il termine del disco coincide con il lamento glaciale della macchina la cui mente va in pezzi (my mind is going…): è la traccia più oscura di un album – difficile rimanere indifferenti di fronte ad un momento così potente – che per il resto ha un mood non violento. In CLAN, infatti, ci sono anche momenti più ballabili (“QTer”) o che richiamano la world music (“JayG”). La traccia più completa è forse “Mark”, un gran pastiche che accumula sempre più strati e cresce mano mano, mentre “Ali” ha la melodia giusta per rimanere tanto tempo nella testa. Nel dubbing va a finire di tutto, ma ogni elemento viene incastonato in una struttura forte, che ci ricorda come dietro a questo flusso di immagini ci sia un grande lavoro (compreso il mixaggio di Rico/Uochi Toki). Per dirla con Richard Russell, everything is recorded.