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OTTONE PESANTE, Scrolls Of War

Gli Ottone Pesante sono tutt’altro che dei novellini e maneggiano la musica da diversi anni, nei quali ciascuno di loro ha accumulato le esperienze più diverse. Quando indossano l’armatura, però, non c’è scampo: il loro brass metal prende forma e colpisce come una vecchia testuggine. Francesco Bucci, Beppe Mondini e Paolo Raineri sferrano colpi potentissimi, e l’etichetta di brass metal è quanto mai azzeccata, considerando come i fiati non portino calore e colore, ma sembrino piuttosto grida di guerra o latrati di belve inferocite.

Se consideriamo che nel brano d’apertura, “Late Bronze Age Collapse” (un ritorno alle origini di molte cose), collaborano con Shane Embury dei Napalm Death al synth, possiamo ben capire l’andazzo. Il secondo brano, “I figli della tristezza contro i figli della merda”, è una raffica di percussioni e cattiveria, con un intervento vocale che recita e urla mentre il mondo intorno si oscura e tutto sembra precipitare verso una fine disastrosa, sotto l’incombente minaccia di un assedio multiforme. Questo finale liberatorio è il risultato di una tensione crescente.

Parlando delle esperienze singolari dei membri, alle quali ho già alluso in precedenza, è affascinante vedere come mondi musicali così diversi si intreccino: dal peregrinare di Zobibor del Bucci ai leggendari Meteor di Mondini, fino alle collaborazioni con Valerian Swing e Sacrobosco di Raineri. Psichedelia, ferocia, intensità e oscurità si fondono in un unico calderone. In “Scrolls Of War” viviamo praticamente su un campo di battaglia, dove i momenti più lenti sembrano passi pesanti su corpi senza vita e i tromboni suonano come litanie funebri mentre il cielo si riempie di fumo. Siamo nel bel mezzo di una carneficina (“Men Kill, Children Die”) e l’unica voglia è quella di distruggere tutto, abbandonando l’umanità al suo triste destino.

Ma c’è anche un senso del sacro, un’epopea dolorosa che ci afferra con le unghie e con i denti, oltre ogni speranza e possibilità di scelta. “Teruwah” è furioso, forse il brano più classico del disco, lirico e drammaticamente metal. Sembra spaccare l’album in due, lasciandoci un profondo senso di vuoto e tragedia, ben rappresentato dal titolo del brano (Pianto, tragedia, in lingua ebraica). Poi arriva Lili Refrain con “Battle Of Qadesh”, che si eleva da una base di brass metal per diventare un sudario di sofferenza e vertigini, in un’ascesa che separa voce, anima e corpo in spazi distinti. “Slaughter Of The Slaints” serpeggia maligno mentre Paolo Raineri urla in sottofondo senza pietà, e “Seven” ci trascina in un vortice di percussione e melodie libere per i fiati per tutta la sua durata. Siamo persi, travolti da una violenza cieca, circondati dal vuoto. Gli Ottone Pesante ci portano in un altro mondo, un luogo oscuro e violento, dove la musica è un’arma e le emozioni sono intense e crude.