Otomo Yoshihide Far East Network, 23/4/2017
Ravaldino In Monte (FC), Area Sismica.
Look da perfetto killer, Otomo si presenta con il suo network di soci orientali assetati di rumore sul palco dell’Area Sismica in una mite domenica pomeriggio di fine aprile. Un suono plumbeo, grigio antrace e che ha poco di umano e quindi è umanissimo, quello che esce dalle mani e dagli attrezzi, stiamo visitando un cantiere o una spelonca in fin dei conti, oppure una centrale ovviamente nucleare, dei quattro. Se alcuni capelloni che tanto colpirono l’immaginario brufoloso degli adolescenti metallici di un’epoca non lontana erano i quattro cavalieri dell’apocalisse, questi efferati rumoristi sono spietati samurai post-atomici, scienziati pazzi e saggi di un suono libero e completamente alla deriva. Tra i fischi e i sibili dei loro marchingegni (due chitarre, pedali assortiti, un mixer collegato ad un distorsore e una scatola sonora auto-costruita) si sentono l’urlo del progresso senza meta, le sirene che annunciano troppo tardi il disastro, l’accartocciarsi dei tentacoli fusi dell’uomo di acciaio che assiste (non più con orrore, ma con il distacco dell’osservatore) alla sua mutazione kafkiana. È una nuova forma di gospel, una preghiera desolata e ispida, metallo urlante, soul del disastro, raga della Fine. All’inizio l’alchimia non pare funzionare a dovere, e il caos non trova un vestito da mettersi mentre fruga nell’armadio dei suoni, tutto comincia con un sibilo, non ci saranno note o melodie da ricordare, solo delirio primitivo e al tempo stesso organizzato, con un buon senso della dinamica e timbri che sovente sfiorano picchi di parossismo; non so dire come, ma nei momenti più massicci si raggiunge una sorta di estasi Zen, come se stessimo ascoltando una gigantesca campana tibetana. Più tardi, durante questa lunga improvvisazione senza pause, il suono vira felicemente verso un’ipotesi ultra-heavy della colonna sonora di “Grizzly Man”, il capolavoro di Werner Herzog magistralmente sonorizzato da Richard Thompson in combutta con Henry Kaiser e Jim O’Rourke.
La chitarra di Otomo è sempre puntuale e feroce, Yuen Chee Wai, all’altra chitarra, in apparenza paga un minimo di timore reverenziale (o forse è solo l’imperscrutabile compostezza dell’estremo Oriente) e resta un poco nelle retrovie, mentre al centro del palco imperversano maniacalmente Ruy Hankil e Yan Jun, al laptop e al mixer. Le onde di white-noise salgono, salgono e reclamano a spintoni il loro posto nel cielo, e anche se non è dolce, naufraghiamo senza timore in questo mare dove convergono, come ad una sterminata, martoriata e densissima foce, i fiumi inquinatissimi della contemporanea (la predominanza dell’aspetto timbrico, lo scavo cocciuto e arguto in ogni suono, l’alea), del rock (una certa enfasi scalpitante), dell’elettronica più disastrata, del resto, con dei giapponesi di mezzo… e del jazz, pare una follia, e invece no, perché Otomo e molti altri ci hanno già abituati alle grammatiche del caos, e del resto lo diceva Parker che se potessimo ascoltare tutti i suoni del mondo in un momento solo impazziremmo, ed ecco, qui – in qualche frangente – ascoltiamo proprio il suono di questo impazzimento.
Il punto di equilibrio dell’esibizione consiste nell’essere improntata al massimalismo più bieco ma nel gestire perfettamente le dinamiche e le durate: nel finale una fantastica versione tutta fischi e innodia rock di “Song For Che” di Charlie Haden mette il sigillo ad un live spigoloso e senza compromessi, mai però gratuito. E come bis un’ultima, affilatissima lama di noise ci taglia le orecchie, vittime felici di tanta sensuale e perfetta confusione. Otomo se ne va, muto e sornione, di nero vestito, la mano sporca di metaforico e quindi verissimo sangue: anche stavolta il cadavere delle buone maniere musicali giace splendente a terra.
Grazie a Paolo Zanotti per le foto.