OSSATURA, 23/3/2018
Bologna, Teatro San Leonardo.
Percussioni zen, una febbre sottile, insistita, minimalista, fibrillazioni della batteria a pompare sangue jazz in un cuore scuro e dilatato, nei cui ventricoli pulsando strategie oblique, ipnosi da raga indiano, ombre, derive, quasi una versione rock – in senso assai lato e per quanto possa essere plausibile – delle severe e imprendibili parabole di Giacinto Scelsi o del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza.
Una babele free in cui pianoforte (Luca Venitucci, anche alla fisarmonica e alla tastiera) ed elettronica (Elio Martusciello, capace di forgiare suoni di una bellezza che stordisce) si scambiano le parti guardandosi allo specchio, mentre Fabrizio Spera alla batteria fa rotolare massi e domani la massa sonora, incandescente e vibrante. Poi un carillon nella nebbia di una foresta australe, Martusciello con l’archetto al suo tavolo delle meraviglie estrae rumori come di ossa, voci da profonde, intime, caverne, Spera è narrativo ed espressionista come Tony Buck dei Necks, lo stesso tipo di batterismo evocativo, drammatico, denso e volatile. Si plana dalle parti di Bitches Brew, un suono come di Big Bang, languori cosmici come un Sun Ra sotto Valium, segnali morse dallo spazio, logaritmi irrisolvibili, groove senza gravità, pulsazioni impensate, impensabili, discorsi magnifici e incomprensibili, magnifici proprio perché inspiegabili.
Ansie riduzioniste, ombre di un Coltrane virato onkyo, un mood sempre vago, rabdomante, una versione audio dello Stalker di Tarkovsky. L’estasi statica dei Talk Talk del crepuscolo, il respiro della musica classica, brividi minimalisti, le asprezze della contemporanea, l’austero nitore dell’elettroacustica, tutto magistralmente coeso, libero, fluido, sempre pieno di senso, vivo.
Sono talmente tante le suggestioni che emergono all’ascolto di quest’ora di improvvisazione che l’unica strada è provare a raccontarla nel suo dipanarsi. Martelli divini dalle parti dell’Orchestra Of Excited Strings di Arnold Dreyblatt, poi un drone-blues enigmatico, alla deriva. Musica potentissima, minuscola e gigante, elusiva e totalmente antiretorica, iperreale e cubista, fragilissima, iperbolica, in perfetto equilibrio tra vertigini da deep listening e splendide fratture per poi aprirsi, quando Venitucci imbraccia la fisarmonica, a un Kurt Weill dei mondi paralleli. Suoni che racchiudono universi e dischiudono infinite vie, eccedendo la possibilità stessa di descriverle. Bisognava esserci. Perfetto lo scenario del Teatro San Leonardo, il quartiere generale del festival Angelica, presto alla ventottesima edizione.
Un live spettacolare.