ORGHANON, Retrospectre
Ho già scritto che sto dalla parte di Sergio Calzoni. Del resto seguo il suo lavoro da 13-14 anni, ed è una cosa che suona strana, perché viviamo un’epoca in cui è quasi meccanico appassionarsi a un nome nuovo ogni tot mesi, dimenticando quello vecchio. Vedo i miei gusti cambiare, i gruppi sparire, la mia vita incasinarsi e disincasinarsi ciclicamente, eppure lui resiste, è una preferenza che non se ne va: ottimo scultore di suoni, discreto, attento alla qualità e poco incline a seguire le mode.
In passato avevo provato a spiegare ciò che faceva paragonandolo ad Alan Wilder, questa volta però non ascolto quella sorta di trip hop scuro che lo accomuna all’ex Depeche Mode, ma un album non ritmico e più disteso, sempre profondo grazie alle basse frequenze e sempre dettagliato. In Retrospectre, come intuibile, mette in musica la memoria, nello specifico quella della sua infanzia, trovandosi dunque (finalmente) su di un terreno molto calpestato di questi tempi, tanto che non mi sorprende che al mastering ci sia Taylor Deupree. Ad arricchire questi paesaggi sonori interiori ci sono interventi di terzi: arpa, violino, viola, violoncello, clarinetto e sassofono. La presenza – molto calibrata – di ciascuno di questi strumenti amplifica il sentimento di malinconia man mano che il tempo passa e rivela una mano quasi da compositore di colonne sonore cinematografiche: toccante l’incontro tra arpa e archi in “Dissolve”, triste oltre ogni possibile immaginazione il clarinetto di Josh Plotner in “Retrospectre II”.
In questi anni il ricordo è stato rappresentato con suoni che si sfaldano o che arrivano da lontano, Calzoni invece ha trovato una via più composta e in un certo classicheggiante. Per questo forse Retrospectre non sarà uno snodo fondamentale, ma di sicuro è un buon disco e l’ennesima conferma della bravura di Sergio.