OREN AMBARCHI, 5/9/2021
Pordenone, Ex Convento di San Francesco.
L’uomo coi capelli ricci e brizzolati seduto al centro del palco dietro a una tavola apparecchiata con effetti ha passato da poco i 50 ed è nato a Sydney da genitori ebrei iracheni, è venuto a vivere in Europa e per un periodo ha studiato a New York. Ha iniziato come batterista, ma si è affermato grazie al suo approccio sperimentale alla chitarra, che diviene fonte sonora da cui ricavare qualcosa di molto simile all’ambient e alla musique concrète, questo nonostante a fargli scegliere il suo strumento principale sia stato Keiji Haino, non proprio il primo a venire in mente per associazione di suoni questa sera. A dirla tutta, considerando la discografia infinita quanto le sue collaborazioni e i suoi incontri con diverse culture, anche ascoltare l’ultimo Ambarchi non aiuta molto a decodificare cosa accade all’interno dello splendido (ex) Convento di San Francesco a Pordenone (a proposito di cosmopolitismo: con la sua Black Truffle, Oren ha ristampato dischi di entrambi i fratelli Toniutti, friulani), luogo perfetto per ospitare i concerti organizzati da Scenasonica, gente che non si è arresa alla pandemia e merita il nostro supporto e la nostra ammirazione. Se uno vuole capire da dove originano le sostanze liberate nell’aria oggi da questo signore molto serafico, è necessario che si procuri Insulation (2000), Suspension (2001), Grapes From The Estate (2004) e In The Pendulum’s Embrace (2007), se non erro tutte uscite Touch (non sono Discogs, smettetela di chiedermi cose), di cui l’ultima in tandem con Southern Lord, in un periodo in cui lui collaborava più stabilmente coi Sunn O))), che gli somigliano più di quanto uno possa credere.
Al di là di tutte queste informazioni e descrizioni, ciò che conta è che stasera Oren Ambarchi è in formissima e consegna il miglior concerto che gli abbia mai visto fare, complici forse l’atmosfera raccolta e il pubblico civilissimo. La chitarra è sorgente di suoni caldi che uno dopo l’altro, senza troppe sovrapposizioni, si diffondono nel convento: c’è questa strana contraddizione tra il loro essere fragili e consistenti al tempo stesso, perché danno la sensazione di essere delicati eppure la loro fisicità è innegabile. Alcuni degli aggeggi sul tavolo servono invece per replicare più volte uno stesso passaggio, secondo un approccio minimalista e l’intento ipnotico da sempre cercato dal musicista, che questa volta è molto fluido e attento a dipingere un suo personale Rothko, favorendo così l’immersione nell’ascolto, che prosegue senza sbalzi. A un certo punto potrebbero essere le dieci di sera come il Ventiquattresimo Secolo, perché alla fin fine abbiamo a che fare con un bravo illusionista. “Frequencies For Leaving Earth”, direbbe Kevin Martin: al prossimo lockdown so cosa fare per dimenticarmi dell’orologio, devo solo stare attento a non rimanere per sempre in qualche Altromondo.