ORBITER, Hollow World
Gli Orbiter, da Helsinki, hanno pubblicato il loro album di debutto su Argonauta Records il 22 settembre 2023: senza mezzi termini è una delle cose migliori che ho sentito quest’anno. Considerato che la band esiste da quasi un decennio, Hollow World ha avuto una lunga gestazione (è stato preceduto da uno split album nel 2019 e dall’ep The Deluge del 2020, di cui consiglio l’ascolto), ma si sa, le cose belle richiedono tempo, dedizione, fatica. Dalla fondazione, avvenuta nel 2014, si sono susseguiti due eventi cruciali: l’ingresso di Carolin Koss nel ruolo di cantante (compito dapprima svolto dal chitarrista Alexander Meaney) e l’uscita del secondo chitarrista, consolidando così la formazione a quattro.
Sarebbe stupido ridurre la proposta musicale degli Orbiter al “solito” doom psichedelico con voce femminile, poiché soprattutto con questo album hanno dato prova di possedere una notevole versatilità: ogni brano su Hollow World è un mondo a sé, e la forte alchimia tra i quattro è il filo conduttore, aspetto che emerge prepotentemente in sede live, ma lo si può facilmente intuire in qualsiasi contesto di ascolto.
Parlando di songwriting, dall’intesa profonda tra Alexander e il bassista Tuomas Talka scaturisce un buon livello qualitativo in termini di raffinatezza e inventiva, in un genere in cui i Black Sabbath hanno formalmente già detto tutto mezzo secolo fa, dando come risultato dei brani davvero solidi, coinvolgenti, orecchiabili, grazie a un riffing eccellente e a un’ottima sezione ritmica, e mi sbilancio volentieri anche segnalando la presenza di Hiili Hiilesmaa nella veste di produttore (sono suoi diversi lavori di Sentenced, Amorphis, Moonspell e altri nomi assai noti), che ha sapientemente dato una direzione più sperimentale, mettendo in risalto la voce di Carolin senza sacrificare in alcun modo l’impronta “heavy” del tutto.
“Silence Breaks” in apertura è un macigno a base di fuzz che, nei suoi sette minuti di durata, dà solo una vaga idea di cosa succederà in seguito, e la successiva “Beneath” vede Carolin giocare con la propria voce e trascinarci nelle sue fantasie (segnalo anche che la ragazza ha una promettente carriera da regista, aspetto che ritengo utile per analizzare il suo stile di scrittura dei testi, molto efficaci nell’evocare immagini).
L’eterea strumentale “Kolibri” rimescola gli equilibri, lasciando spazio al brano seguente, che dà il titolo all’album, dal gusto decisamente anni Settanta e dalle intenzioni più che esplicite: cullare l’ascoltatore in un vortice sonoro dove l’amalgama tra sezione ritmica, riff pesanti come un lunedì mattina e la potente ma delicata voce di Carolin ci trasporta in una dimensione parallela, fuori dal tempo. Ho notato delle sfumature quasi “morrisoniane” nel cantato, complice anche un’atmosfera quasi da rituale sciamanico.
Dei forti richiami grunge caratterizzano “Raven Bones”, incastonati e ben dosati in un contesto inusuale, dove l’elemento ritmico ha un ruolo narrativo non indifferente e i cambi di atmosfera si susseguono con una naturalezza inaspettata, dando come risultato un brano dalle mille sfaccettature ma al contempo solido e diretto, a mio avviso il migliore dell’album, e non è una scelta facile, poiché anche “Under Your Spell” lascia il segno: un pezzo tanto acustico quanto doom, dove voce e chitarra sono tutto ciò che serve. La “desertica” traccia strumentale “Transmissions”, posta tra “Raven Bones” e “Under Your Spell”, offre un ulteriore spunto su ciò che la band è capace di fare in assenza di parti cantate: un basso ossessivo, effetti a profusione che sembrano venire dallo spazio profondo, in contrasto con una batteria quanto mai concreta (c’è anche la firma del batterista Sami Heiniö tra i credits) rendono l’insieme complesso e intrigante pur nella sua linearità.
Si chiude in bellezza e in lentezza con “Last Call”, una deliziosa cantilena doom che presenta però anche dei momenti di apertura dal suono squisitamente vintage e una conclusione piuttosto energica. Il risultato è che viene subito voglia di riascoltare l’album da capo, e non mi pare poco.
Dunque, con Hollow World gli Orbiter riescono, nel giro di poco meno di 38 minuti, a stupire senza inerpicarsi in chissà quali rischiose sperimentazioni, ma risultando comunque originali, in un panorama – quello stoner/doom con voce femminile – decisamente sovrappopolato, dove è sempre più difficile distinguersi ed emergere. Loro ci sono riusciti egregiamente, direi.