ONGON, Exuvia
Se lo si affronta con la giusta predisposizione d’animo, e se contiene promesse e spigoli, un disco è sempre un viaggio, anche se lo si compie seduti alla scrivania, affondati in poltrona, in macchina, d’estate, dietro il vetro-oblò in un inverno perenne, persi nello specchio di un altro paio di occhi o dove meglio credete e desiderate. Ecco, entrare in un mondo disegnato da suoni e note e, per un miracolo che continua a ripetersi ogni volta uguale, ogni volta diverso, restare stupefatti, meravigliati, ipnotizzati, sin dal primo istante. Una perfetta comunione tra le architetture della Natural Information Society di Joshua Abrams, le orge percussive di Bassekou Kouyate (il cui ngoni ha un timbro non troppo dissimile da quello del guembri) e vaghi sentori elettronici, soprattutto nel modo di concepire i pezzi, che sono moduli ritmici in cui però la componente acustica brilla per presenza e pregnanza. Come bere un thè nel deserto con un custode della tradizione gnawa e William Burroughs ad annuire beffardo e assente dietro un vetro sporco in un sordido appartamento di Tangeri. Un disco che è un invito selvatico e raffinatissimo a perdersi, a mollare le redini. A provare l’estasi rituale della danza e dell’ascolto profondo. Antonio Bertoni, dopo Litio del 2016 su Boring Machines con Mongardi e Boccardi, per la prima volta assume l’alias Ongon: uno strumento magico, abitato da spiriti, una porta verso altri mondi. Scenari che raggiungiamo in un lampo e nei quali ci perdiamo e ci ritroviamo come in labirinti naturali, psicologici, selve dantesche, paesaggi di storie che passano di voce in voce da sempre, fondali di mitologie intime e universali.
Un groove mistico e sensuale, un rapimento istantaneo, percussioni (una darbouka o un tamburo a cornice, forse) su cui fiorisce una figura essenziale e arcaica di guembri, una sorta di ibrido tra un liuto e un basso, strumento dell’Africa subsahariana che porta con sé storie millenarie di polvere e vento, ed è subito magia. Antonio Bertoni, con questo Exuvia, pubblicato in vinile in 500 copie dalla Loup Editions e masterizzato da Rashad Becker al Dubplates & Mastering di Berlino, fa il botto. La prima traccia è ipnosi pura; il musicista in solitaria si cimenta, oltre che al citato guembri e alle percussioni, con elettronica, sintetizzatori, samples, chitarra e strumenti autocostruiti: il risultato è di suonare come una moltitudine, restando però assolutamente essenziale e nitido nel suo racconto. Un racconto che ci porta una lingua remota eppure familiare, secoli di storia che il Tempo non cancella ma custodisce, il trait d’union lineare e misterioso tra il minimalismo di un Terry Riley e l’estasi dei poliritmi africani. In Ongon pare di ascoltare un imprendibile strumento a corda, dalla voce squillante e ancestrale, una sorta di iperviolino, come la voce di un rabdomante che intona un canto propiziatorio mentre vaga alla ricerca dell’acqua in una terra brulla e spazzata da tempeste di sabbia. Poi gli schiaffi del vento si placano e si intravede un’oasi; si apre un inaspettato circolo di chitarra e percussioni che stacca un inno al cielo, come un gospel tuareg o una preghiera a divinità complici e sorridenti, così diverse dalle nostre, pallide e distanti. Un vaghissimo sapore dub allarga il respiro mentre pollini portati dall’aria irrequieta restano attaccati al corpo, alle narici, alle mani. Il secondo lato (sono due tracce per lato) si apre con la title-track, di nuovo un incedere minimale, ripetitivo, una perfetta ipotesi di incontro tra il motorik kraut, i labirinti di Steve Reich e il flusso inesorabile delle vibrazioni terrigne della grande Madre Nera che richiama a sé e i cui suonatori richiedono migrazione, vertigine. Da brividi i vortici e gli abissi di puro piacere che si aprono grazie alle intrusioni calibrate dell’elettronica e dei synth; c’è energia primordiale, ci sono respiro, urgenza, verità e poesia in questi otto minuti scarsi che stordiscono come un nettare proibito e balsamico. Chiude questo disco – per il quale nessun superlativo suonerà eccessivo – “Uganda”, ancora figure ritmiche e un guembri a tessere una trama avvolgente e misteriosa, tra futuri possibili e passati inafferrabili, finché poi un freddo vento white noise non spazza via le ombre e riconsegna il deserto al suo incanto disabitato. Un disco che è un vero e proprio apriti Sesamo capace di svelare scrigni preziosi e inaspettati. Noi ci torneremo sopra, voi non fate la sciocchezza di lasciarvelo scappare.