ONEOHTRIX POINT NEVER, Magic Oneohtrix Point Never
Durante gli anni delle scuole medie mi divertivo ad assemblare su musicassetta dei bizzarri pastiche di musica presa a casaccio dalla radio, brani da vecchi 45 giri della mamma inglese di un mio compagno e scratch rudimentali realizzati sul piatto del compattone hi fi di casa: il nuovo lavoro di Daniel Lopatin mi ha riportato curiosamente a quei miei passatempi preadolescenziali, realizzando un disco che conferisce dignità di creazione artistica a un bric-à-brac sonoro che pesca in ascolti ormai rimossi, riproponendone le sonorità.
Con Magic OPN Lopatin torna a cimentarsi con il pop ipnagogico, dopo essere passato per il barocco digitale di Age Of e l’hypergrunge di Garden Of Delete, un terreno già battuto, ma a mio giudizio sempre da comprimario: mi è capitato di frequentare solo di striscio la sua musica, non trovandola mai particolarmente originale come quella di un Ariel Pink (che dell’hypnagogic pop è a tutti gli effetti l’iniziatore) o proiettata in avanti come quella di un James Ferraro. Ho sempre trovato le proposte di Daniel Lopatin abbastanza fuori fuoco, il prodotto di una confusione apparente che egli sembra invece spingere come punto di forza. Stavolta devo dire invece che il nuovo lavoro a firma Oneohtrix Point Never è molto ben costruito, tutto incentrato sulla nostalgia per un certo tipo di ascolti radiofonici (l’alias con il quale è famoso Lopatin altro non sarebbe che un travisamento del nome della stazione soft rock bostoniana Magic 106.7); niente di particolarmente originale, sia chiaro, siamo sempre nel campo del ricordo del ricordo, del recupero di suoni che giocano con forme di nostalgia subliminale. È un’operazione che, nella forma più che nella sostanza, ricorda da vicino cose come Night Dolls With Hairspray, il disco di Ferraro del 2010 dedicato al college rock: anche qui è tutto posticcio, assemblato in laboratorio, ma è tutto talmente ben congegnato da risultare più vero del vero. Punteggiato da intermezzi-collage di parlato radiofonico, claim e jingle fasulli, troviamo un ricco campionario di paccottiglia sintetica, marimbe, flauti di Pan, di nuovo clavicembali (un trait d’union rispetto al disco di due anni fa) ma questa volta mandati in loop stile sveglia del cellulare: spesso si lambisce e a volte si travalica il limite del kitsch più vieto fra arrangiamenti à la Enya (“Long Road Home”) e caricature dell’indie pop del decennio appena concluso (“I Don’t Love Me Anymore”), riletture dell’adult oriented rock (“Lost But Never Alone”) e sigle TV da programmazione antelucana (l’ottima “The Whether Channel”), ninne nanne per nativi digitali (“No Nightmares”, con l’azzeccatissimo cameo di The Weeknd) e sinfonie per uccellini di plastica (“Wave Idea”). In generale, attraverso melodie tranquillizzanti e suoni zuccherini, deteriorati ad arte come un paio di costosi stonewashed jeans, si veicola un sentimento vago di nostalgia per qualcosa che, seppure molto legato all’esperienza personale di Lopatin, non fatica a innescare nell’ascoltatore, anche quello meno avvezzo a situazioni musicali tanto vaporose, una sorta di vibrazione simpatica. Fosse uscito dieci anni fa, avremmo forse detto capolavoro, nel 2020 possiamo parlarne di sicuro nei termini di un ascolto estremamente piacevole.