Ombre infrante nelle imperfette misure della luce: quattro dischi Intakt

“La cosa più difficile in musica è ancora scrivere una melodia di diverse battute che possa funzionare da sola. Questo è il segreto. Quanto più la tecnica viene perfezionata, tanto più diventa meno essenziale: chiunque può acquisirla in modo brillante. La cosa fondamentale è l’elemento vitale – la melodia – che dovrebbe essere facilmente ricordata, sussurrata e fischiettata per strada. Senza questo, tutta la tecnica del mondo resta lettera morta”.

BROKEN SHADOWS, Broken Shadows

Così Darius Milhaud, citato da Brandford Marsalis nelle note di copertina (ci torneremo) di questo bel disco dedicato alla sacra trinità di Fort Worth, Texas: Dewey Redman, Ornette Coleman e Julius Hemphill. Broken Shadows è frutto dell’incontro di musicisti le cui strade si incrociano da una vita: 35 anni di collaborazione per Chris Speed (sax tenore) e Tim Berne (alto sax), altrettanti per Reid Anderson (contrabbasso) e Dave King (batteria). Il quartetto ha preso vita nel 2017 con queste regole: nessun pezzo originale, nessuno spartito sul palco, nessuna prova ed assoli brevi. Restando dentro questo perimetro, nell’omaggio ad Ornette Coleman (otto pezzi su dodici sono suoi) emerge soprattutto l’elemento melodico: “In un’epoca in cui il brano viene usato come veicolo per l’improvvisazione, con questa band il veicolo è il brano stesso” (ancora Marsalis). Interplay, groove, esposizione nitida del tema, improvvisazione: non ci sono grandi novità in questi dodici tracce, che suonano comunque fresche e in your face nella loro monumentale, scabra essenzialità. La personalità (importante) dei musicisti fa un passo indietro per lasciare il centro del sipario al profilo dei brani: dall’incipit travolgente di “Street Woman” al proto hip-hop sghembo di “Body” di Hemphill sino alle immortali “Dogon A.D.” (sempre Hemphill) e “Song For Ché” (Charlie Haden) l’album è un tributo divinamente suonato e perfettamente pensato. Non ci convince, tornando alle note di copertina, l’affermazione di Marsalis, secondo cui “molti musicisti sono caduti nella buca del coniglio dell’innovazione a spese di tutto il resto, mentre esprimono preoccupazione e disappunto per la diminuzione del pubblico (non rendendosi conto che questa è una situazione a loro stessi dovuta: che deliziosa ironia)”- Non è questa la sede per approfondire il discorso e senz’altro ubi maior minor cessat, ma la pensiamo diversamente, per il poco che vale. Broken Shadows resta un lavoro perfettamente a fuoco, ispirato ed affilato e senza nemmeno un secondo di musica in più rispetto al necessario.

MICHAEL FORMANEK, Imperfect Measures

Dopo i fuochi d’artificio del Very Practical Trio con Tim Berne e Mary Halvorson, torna su Intakt il contrabbassista Michael Formanek con un solo: nove tracce nude e luminose nella loro essenzialità. Chi scrive ha una predilezione speciale per i soli di contrabbasso ed anche questo lavoro la conferma: monologhi filosofici da qualche parte a metà strada tra un cielo in cui non abbiamo cittadinanza ed abissi che ci tentano ma continuiamo a temere; brividi quando ci ritroviamo in un labirinto (l’archetto che fruga tra le nostre vane intenzioni in “A Maze”), esercizi di speleologia, prove di decollo (“Airborne”), prototipi di umanità indicibile se non tramite le mani sulle quattro corde (il mood pensoso di “On The Skin”). Un musicista cruciale e ispiratissimo, un disco da ascoltare al massimo del volume al tramonto, con le finestre spalancate, convocando gli dei della notte.

IRÈNE SCHWEIZER – HAMID DRAKE, Celebration

Registrato dal vivo durante la quarantesima edizione del Konfrontationen alla Jazzgallery di Nickelsdorf, in Austria, Celebration, come da titolo, esce per gli 80 anni della mitica pianista, protagonista di tanti duetti con batteristi (tra questi ricordiamo Han Bennink, Louis Moholo, Joey Baron). Il disco è accompagnato dalla pubblicazione del catalogo dell’opus magnum della Schweizer per l’etichetta di Zurigo e del libro di Christian Broecking “This Uncontainabile Feeling Of Fredom. Irène Schweizer – European Jazz And Politics Of Improvisation”. Nove tracce tra improvvisazione e composizione (chiude una” Song For Johnny” dedicata a Dyani, il bassista dei Blue Notes, la band sudafricana con Chris McGregor, Louis Moholo, Dudu Pukwana e Nikele Moyake), che probabilmente dal vivo avrebbero catturato maggiormente l’attenzione. La maestria dei musicisti coinvolti è fuori discussione, fa però capolino in qualche frangente il già sentito. Il mood black della Schweizer emerge a più riprese (“Blues For Crelier”, la citata “Song For Johnny”), il groove funziona a meraviglia (Hamid Drake è una macchina, su questo non ci piove), ma a volte la straordinaria abilità dei musicisti (di Drake in particolare, che secondo me si fa prendere un poco la mano) si prende tutta la scena, lasciando in bocca il sapore di una grande esibizione che però lascia poco dopo essere stata ammirata. Probabilmente, se fossimo stati presenti al concerto, avremmo apprezzato di più: su disco il documento per noi non suona memorabile. E comunque, sia chiaro, lunga vita a Irène Schweitzer, che il dio del jazz ce la conservi sempre con questa verve!

CHRIS SPEED, Light Line

Notevole, invece, l’ultima uscita di casa, un solo per clarinetto per Chris Speed, che siamo abituati ad apprezzare solitamente al sax tenore, protagonista anche nei Broken Shadows di cui abbiamo parlato prima. Quindici tracce in totale, nitida solitudine: sin dai labirinti circolari della title-track si apre un sipario su un mondo intatto e celeste, abitato da pochi elementi. Come se una pioggia apocalittica avesse lavato via tutto quanto: dopo il diluvio rimane solo la primigenia bellezza di linee melodiche che creano incessanti forme di vita nell’acqua, nell’aria e nella terra fertile delle nostre orecchie (le oblique geometrie di Sphasos Triem di Andrew D’Angelo). Un suono luminoso, pieno e controllatissimo, lirico e austero, comunicativo e distante: Speed suona da una nuvola nella stanza accanto, gli occhi al cielo, perfettamente concentrato nel restituire la compatta bellezza di composizioni di Eric Dolphy (“Miss Ann”) o John Coltrane (“Sun Ship”), di un tradizionale messicano (“La Rosita Arribeña”) o della conclusiva “It Should’ve Happened A Long Time Ago”, l’unica traccia con una sovraincisione: un lievissimo drone funge da anello attorno al quale una dolente, languida melodia può disegnare la sua imprendibile orbita. Chiusa magistrale per un disco sottile e bellissimo, che lascia la sensazione di respirare un ossigeno prezioso e dimenticato.