OISEAUX-TEMPÊTE, Al-An’!
Capita di rado di avere l’opportunità di ascoltare in anteprima e poter scrivere di un disco importante, uno di quelli di cui, ancora prima di essere giunti in fondo, non si può non riconoscere la grandezza. C’è la paura di non comprenderne del tutto la rilevanza e di essere un po’ troppo prudenti, e al contempo quella di sovrastimare, di usare parole che, rilette a distanza di tempo, possano risultare clamorosamente fuori luogo. Ed è questo, in un’epoca che tutto dimentica ma dove tutto lascia traccia di sé, a rappresentare per me la difficoltà piú grande quando invece, se ne dovessi parlare a un amico, descriverei Al-An! semplicemente come una delle cose più belle in cui mi sia imbattuto negli ultimi anni.
Ultimo capitolo di una trilogia dedicata al Mediterraneo, dopo l’omonimo esordio registrato in Grecia e ÜTOPIYA?, tra Sicilia e Turchia, Al-An! (anticipato dalla nondimeno eccellente raccolta Unworks And Rarities) è stato ideato e suonato a Beirut, in Libano, ed è una magnifica summa di esperienze, suggestioni e tensione drammatica, realizzato da una band in stato di grazia, mai così focalizzata, rigorosa, asciutta e mai così vicina all’essenza di un luogo e di un tempo precisi, uno Zeitgeist che pochi sono riusciti a raccontare cosí bene.
Le modalità di lavoro di Frédéric D. Oberland e Stéphane Pigneul, come sempre circondati da uno stuolo di validissimi sodali, tra cui Mondkopf, G.W. Sok (The Ex) ed eccellenti musicisti locali, prevedono come al solito l’improvvisazione come punto di partenza, utilizzando espressioni diverse come post-rock, noise, free jazz, elettronica, musica etnica e field recordings. Un crogiuolo di linguaggi che, quando sorretti da un’ispirazione così centrata, riescono a intendersi perfettamente e, anzi, a creare una lingua nuova e più efficace.
Lungo le dodici tracce (per poco più di un’ora) la tensione è controllata, serpeggia sotto la pelle, e quello che colpisce è la consapevolezza che sembra emergere da ogni singolo istante, quella di un gruppo di musicisti che non ha bisogno di deflagrazioni clamorose per farsi ascoltare e dispiegare il suo messaggio con forza ed efficacia.
Lo sgarbo più grande che si possa fare a questo lavoro è concedergli un ascolto distratto, perché basta solo un minimo di attenzione per venire catturati dagli intrecci magici tra le chitarre noise, l’elettronica sinuosa (“Carnaval”, “Feu Aux Frontières”) e la storia di un popolo e una terra, raccontata da voci arcaiche, percussioni indiavolate e magici strumenti a corda. A volte sembra quasi che la musica si autogeneri per giustapposizione di una serie casuale di elementi che non possono rimanere separati, altre volte sembra che sia sempre stata lì, in attesa di essere disvelata.
L’unico momento in cui si rischia di perdere il controllo è sul finale della monumentale “Through The Speech Of Stars”, diciassette minuti in cui è impossibile distogliere l’attenzione dai feedback chitarristici e dal lungo recitato che prelude l’esplosione di rumore, quasi un’anteprima di catarsi, che sembra voler solo dare un’idea, un assaggio di quello che potrebbe essere.
E risulta per questo ancora piú intrigante.
Non voglio usare quella parola lì, quella che comincia per “C” e finisce per “apolavoro”, ma insomma, dai, ci siamo capiti.