Officina F.lli Serravalle: voraci e anti-accademici
Officina F.lli Serravalle è l’ennesimo esempio di musica libera e non allineata dal Friuli. Blecs, il loro ultimo lavoro, pubblicato da Lizard Records, è un calderone di idee e stimoli di provenienza anche molto diversa, mescolati con mani pazze e al tempo stesso sapienti: un freak vi direbbe un bel viaggio, senza cintura di sicurezza, lontano dalla zona comfort a cui capita di rassegnarsi, talora senza accorgersene. Del resto, è tutto a portata di click. Oppure no? Alessandro, con il fratello Gianpietro, anima questo laboratorio alchemico: siamo entrati dentro a fare due chiacchiere.
Nel libretto di Blecs parlate di epifanie del caos. Mi dici quali sono state le tue/vostre epifanie nel percorso da musicisti e ascoltatori?
Alessandro Serravalle: Credo che la questione legata a caos ed entropia derivi molto dalle mie passioni filosofiche. Il mio amore sconfinato per Emil Cioran ha certamente giocato una parte decisiva in questo senso. È singolare come l’esacerbazione della lucidità, tratto caratteristico del Privatdenker romeno, porti proprio all’epifania del caos (o del vuoto come scrive egli stesso nei Cahiers). Quanto alle epifanie prettamente musicali ce ne sono state diverse nel corso della mia vita: il rock progressivo durante l’adolescenza e poi la musica colta (qualunque cosa questa espressione significhi) del ventesimo secolo (la “linea schönberghiana”, tenendo per buona la dicotomia Schönberg – Stravinsky proposta da Adorno), l’elettronica in tutte le sue declinazioni, dai lavori pioneristici degli anni Cinquanta del secolo scorso fino alla Kosmische Musik e all’estetica glitch. L’ultima pietra angolare di questo immaginario edificio è rappresentata senza dubbio dalla “musica creativa” di derivazione jazzistica (Anthony Braxton su tutti ma certamente non solo).
Lo chiedo a tutti i musicisti friulani, ne ho intervistati diversi oramai (i primi che mi vengono in mente sono Giovanni Maier, Maistah Aphrica, Stefano Giust): da cosa dipende questo approccio libero e selvatico che vi accomuna tutti?
Ritengo che la faccenda abbia a che fare con il fatto che il Friuli si trova, per dirla con un grande irregolare della musica del mio territorio purtroppo prematuramente scomparso, il goriziano Fausto Romitelli, “alla periferia dell’impero”. Inoltre in questo lembo di terra le culture latina, slava e germanica collidono ed è probabile che questo inneschi una qualche reazione (come in un calderone ribollente)… in effetti da queste parti la percentuale di musicisti “creativi” rispetto alla dimensioni della Regione (non arriviamo a 1.200.000 abitanti) è davvero alta. Oltre ai musicisti da te citati menzionerei il triestino Andrea Massaria, senza dubbio tra i chitarristi più innovativi in circolazione, e lo straordinario flautista pordenonese Massimo De Mattia, ma molti altri nomi potrebbero essere fatti.
Siete su Lizard. Siete dei proggaroli inguaribili?
Vengo sicuramente da lì. Il mio esordio discografico risale al 1993 con la mia band “storica” (i Garden Wall con cui ho realizzato otto album). Strappammo un contratto con l’etichetta tedesca Wmms e con loro realizzammo 4 dischi a Stoccarda. Vorrei tuttavia sottolineare che la mia idea di rock progressivo è antipodale rispetto a tutta una pletora di band che non fanno che riproporre modelli ormai vecchi di 50 anni. Adoro i Genesis, i Van Der Graaf generator o i King Crimson ma credo che imitarli abbia poco a che fare con l’essere progressivi. Il progressive, per come la vedo io, non è un genere ma un’attitudine. Ricalcare la lettera di certe cose degli anni Settanta mi sembra sia tradirne lo spirito.
Nel disco ho sentito tracce di jazz-rock, prog, psichedelia, elettronica (Future Sound Of London), ma anche Bark Psychosis, David Sylvian, Talk Talk, oltre al Miles Davis rivisto da Bill Laswell in Panthalassa, il tutto con un’attitudine voracemente eclettica, zappiana: che ne pensi, mi dai qualche altro riferimento se ce ne sono e mi racconti come avete lavorato?
Mi fa estremo piacere che tu colga tante cose diverse dentro la musica di Officina F.lli Seravalle, vuol dire che non abbiamo abbracciato alcuna scelta estetica predefinita se non quella di non adagiarci sui luoghi comuni di un determinato genere. Tutto quello che citi fa parte dei miei ascolti, delle cose che amo e tutto viene in qualche modo rimescolato, deformato dal nostro modo di fare. Aggiungerei alla lista certa musica colta post-weberniana (oltre a Webern stesso anche Karlheinz Stockhausen, Luigi Nono, Pierre Boulez o Bruno Maderna per fare qualche nome) e l’improvvisazione non idiomatica (da chitarrista il primo nome che mi viene in mente è quello di Derek Bailey ma molti altri musicisti si sono mossi in questa direzione, in primis quelli della Association for the Advancement of Creative Musicians di Chicago, con risultati stupefacenti). In effetti, contrariamente a quanto potrebbe sembrare di primo acchito, l’elemento improvvisativo è tutt’altro che assente nei nostri lavori. Si tratta più di suggestioni che di reali indicazioni operative (sebbene certe pratiche “paraseriali” rivisitate in chiave anti-accademica siano presenti). Per quanto attiene alla prassi effettiva del lavoro io e mio fratello, che pure ci vediamo piuttosto di frequente, ci scambiamo file per posta elettronica. Talvolta la scintilla creativa parte da me, altre da lui. Poi per approssimazioni e stratificazioni successive lavoriamo sul singolo brano fino a quando ci pare di avere una “fotografia sonora” sufficientemente fedele del luogo in cui volevamo portare la composizione in questione. In questo modo abbiamo realizzato fino a oggi 3 dischi… in questi ultimi mesi abbiamo cominciato a lavorare sul quarto capitolo. È un modo molto rilassato di lavorare, c’è una stima reciproca totale e le diversità di vedute sono molto rare.
Come avete vissuto il periodo pandemico? In casa a suonare e a registrare un quadruplo? Come e dove registrate? Gestazione lunga, improvvisazione? E com’è suonare tra fratelli?
Il nostro ultimo lavoro è nato durante il lockdown. In realtà è stato un periodo molto creativo in particolare grazie al fatto che ero in cassa integrazione e ho avuto due mesi di tempo libero. Più opus e meno labor potrebbe diventare il mio slogan! Mio fratello non è stato altrettanto “fortunato” e ha continuato a lavorare. Ho registrato moltissimo materiale (non solo per Officina ma anche per altri progetti in cui sono coinvolto) nel mio spartano home studio. Pietro si occupa anche del missaggio finale dei nostri dischi (io sono sordo dall’orecchio sinistro, meglio faccia lui). Come accennatoti Officina è un luogo in cui domina l’armonia, io e mio fratello avevamo già collaborato nell’ultimo lavoro dei Garden Wall (Assurdo, 2011) e in un progetto il cui unico disco è uscito per Setola di maiale (James Frederick Willetts, 2017) che rappresenta il prodromo di Officina (con noi Andrea Massaria e il filosofo Raoul Kirchmayr). Il nostro laboratorio sonoro si trova da qualche parte tra le mie tendenze radicali e l’attenzione per il groove, nelle più disparate forme, di Pietro, anche se in definitiva risulta estremamente difficile capire all’ascolto chi faccia cosa, una volta miscelati gli elementi di partenza formano una sorta di soluzione chimica abbastanza inestricabile.
Il tuo primo ricordo musicale?
Il mio primo ricordo musicale è la Polacca op. 53 in La bemolle maggiore di Fryderyk Chopin, un compositore che tutt’ora adoro e che trovo straordinariamente moderno… ma il brano che mi ha cambiato la vita, causando una specie di reazione a catena, è senza dubbio “In The Air Tonight” di Phil Collins ascoltata da un juke-box in Carnia (a Pesariis, il paese degli orologi, per la precisione) quando avevo 12 anni. Fu il mio portale verso il progressive rock (“Watcher Of The Skies” dal Live dei Genesis del 1973 fu… epifanica!). Da lì mille rivoli m’hanno condotto dove sono ora, un ascoltatore vorace e curioso.
Cinque dischi della vita.
Questa è davvero difficile! Vado di getto consapevole che tra cinque minuti la mia lista sarebbe diversa: The Lamb Lies Down On Broadway dei Genesis; Pawn Hearts dei Van Der Graaf Generator; Requiem di Gÿorgÿ Ligeti; In Den Gärten Pharaos dei Popol Vuh e Creative Orchestra Music di Anthony Braxton… sto notando che tutti questi cinque capolavori sono usciti negli anni Settanta (con l’eccezione della composizione di Ligeti che fu composta tra il 1963 e il 1965)… tuttavia giuro di non essere un nostalgico, un buon 60% di quello che ascolto abitualmente sono lavori usciti nell’anno in corso.
Collaborazioni dei sogni.
Quasi altrettanto difficile: ti dico allora i due Peter (Gabriel e Hammill) e Anthony Braxton (cui ho dedicato un brano su un mio lavoro solista. Quando gli consegnai il disco non la finiva di ringraziarmi ed ebbe persino l’ardire di dirmi che avrebbe studiato la mia musica! Al mio schermirmi oppose un risoluto «No, I want to learn! I’m a student!»). Mi piacerebbe molto anche fare qualcosa con Marylin Crispell, una pianista strabiliante e molto creativa.
Parere spassionato sullo stato di salute della musica non allineata in Italia: pubblico, scena, locali, critica.
La scena musicale italiana (ma non solo) versa a mio parere in uno stato di morte apparente. Credo sia uno degli effetti perniciosi della mercificazione di stampo capitalista nelle sue imperanti varianti neo od ordoliberiste. L’arte, in tutte le sue forme, ha dovuto soccombere alle leggi del mercato. Sono convinto che se il mercato decidesse di spingere, a titolo d’esempio, un Ryoji Ikeda (che pure gode di una certa notorietà) questi sarebbe in cima alle classifiche di vendita e ascoltato quanto Justin Bieber. Sarebbe però difficile proporre costantemente dei novelli Ryoji Ikeda (ecco un altro con cui sognerei di lavorare!), molto più semplice replicare e produrre in serie dei Justin Bieber, ergo… Tuttavia c’è chi insiste nel proporre ottime cose, penso ad esempio a festival come Angelica a Bologna, ma anche qui in Friuli Venezia Giulia ci sono realtà di grande interesse come il Dobia Lab o la meno nota “La stanza” di Trieste. Ci sono ancora delle oasi resistenti. Anche a livello critico c’è chi persiste e va a scavare alla ricerca del fiume carsico della musica non allineata che è lungi dal prosciugarsi. Se ci si dedica a quest’attività di scavo si possono incontrare lavori di grandissimo interesse e di notevole bellezza. La differenza con gli anni Settanta, tornando in qualche modo alla mia lista di cinque dischi, è che 50 anni or sono certe musiche uscivano dalla dimensione underground per arrivare a molti. Certo la musica aveva una valenza sociale che oggi ha decisamente perso, e anche questo temo sia un effetto dell’atomizzazione individualista promossa dal neoliberismo (si ricordi la famosa sentenza di Margaret Thatcher: «there is no such thing as society»).