OCTOPLOID, 2/8/2024

Helsinki, On The Rocks. Le foto sono di Mirko Luparelli.

Ho recentemente parlato dell’album di debutto degli Octoploid su queste “pagine” (progetto solista di Olli-Pekka “Oppu” Laine, bassista degli Amorphis) ed è stata una bella sorpresa sapere che avrebbero suonato dal vivo, per l’unico concerto del 2024, proprio la sera del mio compleanno, in un locale in centro a Helsinki la cui programmazione è sempre di ottimo livello.

In apertura la band locale Sumea: propone uno stoner con accenni grunge (tra l’altro vedo che il frontman Tuomas Valtanen indossa, manco a dirlo, una maglia dei Soundgarden raffigurante la copertina di Badmotorfinger), perfetto per assecondare la nostalgia degli anni Novanta che un po’ tutto il pubblico condivide con allegra rassegnazione.

I quattro salgono sul palco puntuale alle 21 per eseguire otto brani, tra cui l’ultimo singolo, “Väärä Profeetta” (“falso profeta”), uscito in digitale a fine maggio. Il sound ha delle immancabili influenze sabbathiane, qui però riproposte in maniera non banale, anche grazie al ruolo trainante del basso. Un buon numero di persone sono qui per loro, vale a dire che, in quanto band-spalla di una formazione nuova ma composta da “veterani”, i Sumea possono contare su una fanbase appassionata, che li supporta acquistando il merchandise e che conosce i pezzi a memoria, cosa che non va data per scontata ma che fortunatamente è abbastanza uno standard da queste parti. Evitata dunque una di quelle imbarazzanti situazioni da locale semi-vuoto che si riempie solo quando la band principale sale sul palco.

Sumea

Sul terzo brano Tuomas scende tra il pubblico con tamburello e drumstick, mentre il bassista fa sfoggio dei suoi lunghi dreadlocks: sembra a tutti gli effetti un rituale sciamanico, sensazione che si ripresenterà più volte nell’arco del loro spettacolo, complice anche, come accennavo, un pubblico particolarmente attento.

Sumea

Un invito a battere le mani a tempo arriva su “Kaukana Rannasta” (“lontano dalla spiaggia”), sorta di ballad intensa ed energica che colpisce profondamente: è come se Chris Cornell avesse deciso di partecipare, prestando la propria voce a Tuomas. Ho i brividi, e non c’è barriera linguistica che tenga.

Sumea

Il set dei Sumea dura circa tre quarti d’ora. Giuro a me stessa che li terrò d’occhio perché mi sono piaciuti davvero tanto, e mi auguro inoltre che pubblichino un album al più presto.

A questo punto vado a prendere da bere, scambio due parole con qualche amico e mi preparo mentalmente agli Octoploid: ho grandi aspettative e buone vibrazioni, ma non si sa mai. Dicono che la delusione sia il liquido amniotico dell’esistenza, ma sono abbastanza sfrontata e sfacciata da prevedere che con quella lineup sia praticamente impossibile sbagliare.

I ragazzi si impossessano del palco alle dieci e un quarto, come previsto. Alle tastiere, al posto di Kim Rantala, figura Antti Myllynen, ex Barren Earth, uno di famiglia, insomma. Noto subito che Mikko Kotamäki indossa una maglia meravigliosamente pacchiana col faccione di Jim Morrison stampato sopra: ha senso, dovendo lui ricoprire il ruolo di vocalist su tutti i brani, e volendo aggiungere un ulteriore spunto psichedelico alla serata. Dopo una breve intro, che vede i musicisti prendere posto, arriva “The Dawns In Nothingness”, che anche sul disco è in apertura. Mi precipito a dare una veloce occhiata alla scaletta cartacea ai piedi di Oppu, rigorosamente scritta a mano, e mi rendo conto che i brani verranno eseguiti in un ordine diverso rispetto al disco, e che c’è qualche “chicca”.

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La naturalezza con cui Mikko alterna scream e growl è uno dei suoi marchi di fabbrica che ho sempre apprezzato. Il basso di Oppu ha un suono deciso, ed è molto stimolante vedere e sentire i suoi brani prendere forma in sede live: sembrano scritti per essere eseguiti sul palco, grazie a una serie di piccoli, cruciali particolari che potrei riassumere col termine “groove”. L’alchimia tra i musicisti è palpabile, per quanto sia a tutti gli effetti il loro primo show. Colpiscono la precisione chirurgica del batterista e l’incredibile presenza scenica del chitarrista, il cui look mi fa effettivamente credere che sia appena arrivato dagli anni Settanta con una macchina del tempo.

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Mikko dà le spalle al pubblico durante i lunghi assoli concedendosi un meritato sorso di birra, più “morrisoniano” che strafottente, lo so per certo… “Coast Of The Drowned Sailors” vede nella versione studio Tomi Koivusaari, inizialmente anche cantante degli Amorphis, ed è forse il brano che rischia più di altri di non rendere altrettanto bene. Mikko imbrocca anche quello, con la già citata naturalezza che lo contraddistingue. Chi se lo aspettava…

C’è aria nostalgica e parecchio entusiasmo sotto al palco, come se stessimo facendo una gita nel 1996 e non volessimo per nessun motivo tornare al presente. Oppu sta in disparte, nessuna mania di protagonismo, da buon finlandese quale è. Si cimenta nelle seconde voci assieme al tastierista, mostra compostezza e concentrazione, pur sfoggiando apertamente quella fisicità da palco che l’ha reso iconico.

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Dopo una splendida “Concealed Serenity”, Oppu presenta la band, definendo Mikko “lo sciamano”, e mi trovo del tutto d’accordo. Segue la bonus track “Monotony”, dove il chitarrista vive il suo momento al centro del palco, in un lungo intermezzo strumentale che mi sembra tanto spontaneo quanto perfettamente bilanciato. Nella parte finale per piano battiamo le mani a tempo. Mikko lascia il palco. È il momento del brano strumentale che dà il titolo all’album, seguito da “Relief”, altro strumentale, da Elegy degli Amorphis, una delle “chicche” di cui sopra. Noto sguardi di intesa ed è evidente che si stiano divertendo molto, pur mantenendo un altissimo livello di professionalità.

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Mikko torna sul palco e ci regala un’inaspettata “The Leer”, dei già citati Barren Earth, band in cui ha militato accanto a Oppu fino al 2013. Segue “A Dusk Of Vex”, pezzo in chiusura sul debutto degli Octoploid, di cui colpisce molto la parte in clean di Mikko e Oppu, oltre a quella meravigliosa vena prog mischiata al death metal, vero e proprio filo conduttore dell’intera serata. L’outro, passionale ed emozionante, ci accompagna verso la conclusione, ma non è ancora finita: i ragazzi ringraziano e lasciano il palco per qualche minuto, ma poi tornano e chiudono con “Children Of The Grave”, perché, come dice mio marito, che era intento a fare le foto, non si può prescindere dai Black Sabbath.

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La voce soffre un po’ di un missaggio non proprio congeniale, ma nell’insieme, grazie anche ad alcuni passaggi eseguiti con maggiore lentezza, salta fuori una gran bella cover, su cui Mikko si è preso la libertà di buttar dentro un paio di growl “tattici” tutt’altro che fuori posto. Non avrei immaginato una conclusione migliore per un concerto così appagante. Non ci sono state, a mio avviso, sbavature di alcun tipo, e la loro gioia di stare sul palco era decisamente palpabile. Spero non passi troppo tempo prima che ricapiti, perché tra i tanti ottimi concerti visti quest’anno, mi sbilancio consapevolmente e affermo volentieri che questo sia stato uno dei migliori.

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