Occhi di serpente nella notte: intervista agli WOW
La scena musicale di Roma Est: un mondo parallelo, quasi una way of life per musicofili e nottambuli. Nei tempi pre-pandemici anche un crocevia di band e dj da tutto il mondo, un ambiente vivo e curioso che ha i suoi attuali luoghi d’elezione nei circoli Arci Fanfulla e 30formiche, oltre ad una geografia variabile di locali, birrerie e bar. Gli WOW nascono in questo contesto una decina d’anni fa, abbandonando presto gli stilemi noise che appartengono a molti altri gruppi della zona Pigneto – Torpignattara. Il suono retrò, con le radici affondate nella canzone italiana degli anni Sessanta e nel cantautorato francese, a cui si aggiungono testi ben calibrati e un forte legame con il teatro, rendono il gruppo l’anima più elegante della famiglia. Lo scorso anno il disco Come La Notte ha segnato una nuova tappa nel loro percorso: dopo la ruvidezza degli esordi, infatti, gli WOW avevano pubblicato due dischi per l’etichetta 42 Records (quella di Cosmo, Colapesce e Julie’s Haircut) che poteva far presagire un approdo ad altri mondi e ad altri ascoltatori, sulla scia di fenomeni anch’essi transitati per Roma Est come Calcutta. Invece, passati tre anni, la band ha proposto un disco fedele agli intenti originari e ancora più personale, sbarcando su Maple Death Records e coinvolgendo l’etichetta-complice di vecchia data MyOwnPrivateRecords). La scorsa estate, poi, ha visto l’uscita della cassetta semi-live Falene. Abbiamo parlato con China e Leo, rispettivamente alla voce e alla chitarra, nucleo centrale degli WOW ma anche organizzatori di serate e di format originali, caratterizzati dall’ibridazione tra linguaggi.
Sembra che in Come La Notte ci sia un’evoluzione rispetto ai due dischi precedenti, il sound ha qualcosa di più intimo.
Leo: Probabilmente sì, c’è stato uno scarto rispetto ai dischi precedenti. È passato qualche anno rispetto al lavoro scorso, Millanta Tamanta, ci siamo presi i nostri tempi. Normalmente si è come ipnotizzati mentre si registra e solo dopo si ha modo di rifletterci su, mentre per Come La Notte avevamo un po’ più di calma, anche grazie a lavori che ci hanno dato un po’ più di sicurezza, come quello svolto per lo spettacolo teatrale di Deflorian/Tagliarini “Quasi Niente”. Abbiamo avuto tanto tempo per fare le prove per lo spettacolo, non avevamo preoccupazioni economiche pressanti e nel lavoro teatrale c’è un tempo di riflessione maggiore. È stato poi un disco che abbiamo fatto e rifatto: dopo una prima sessione di registrazione abbiamo deciso di ripartire dalla band e da una sorta di comunanza di vedute, così abbiamo lavorato con Thibault, bassista con cui suoniamo da sempre, e Pippo Grassi, un giovane batterista. Partendo dai nostri rapporti interpersonali e parlando di quello che avevamo in mente per Come La Notte forse ci siamo ritrovati con le idee più chiare anche noi stessi.
Com’è stato partecipare allo spettacolo “Quasi Niente” di Deflorian/Tagliarini?
Leo: È uno spettacolo in cui mi sono trovato coinvolto grazie a China, che studiava e lavorava con Daria Deflorian da diversi anni. Loro hanno spesso lavorato con la musica nei loro spettacoli, in un certo senso le canzoni arrivano quando si rimane senza parole. Lo spettacolo parla di quello stato mentale di non perfetta aderenza alla realtà, come può essere la depressione… come quando ti chiedono «che cos’hai?» e rispondi «quasi niente», in quel “quasi” sono come racchiuse tutte le difficoltà di vivere la vita in questa società. Credo sia stata un’influenza reciproca, noi avevamo già dei pezzi come “Niente Di Speciale”, glieli abbiamo fatti sentire e abbiamo scoperto che stavamo grosso modo lavorando sulla stessa poetica. È stata un’esperienza forte che è durata tre anni, ci ha portato in giro per l’Italia e anche fuori, in Francia, in Svizzera, in Canada. Per alcune date della tournée abbiamo organizzato anche dei concerti degli Wow, ad esempio a Montreal e a Toronto abbiamo suonato grazie a Cindy Lee e Kyle Knapp, che avevamo conosciuto al Fanfulla quando erano venuto a presentare il bellissimo disco di Cindy Lee uscito su Maple Death. Non rimanere confinati nel proprio ambito e ibridare i linguaggi dà ricchezza sotto tutti i punti di vista. Da musicisti confrontarsi con il teatro e con una compagnia teatrale dà modo di vedere da una prospettiva diversa quello che si sta facendo con la musica.
China: Per dei musicisti che vengono dallʼunderground come noi ritrovarsi in grandi teatri cambia la prospettiva. La tua musica deve percorrere uno spazio completamente nuovo, ampio e differente, per un pubblico molto diverso, che paga il biglietto e si siede al suo posto per due ore. Questo ci ha permesso di lavorare con una certa cura ed è stato molto interessante. Poi allʼestero a vedere le compagnie italiane vengono molti figli o nipoti di immigrati italiani, loro hanno questo legame con la musica che ascoltavano i loro genitori o nonni e visto che anche noi abbiamo questa sensibilità, cioè componiamo delle canzoni contemporanee che però hanno anche un sapore un po’ antico, si emozionavano molto.
Come La Notte ha segnato il passaggio alla Maple Death Records.
China: Conoscevamo Jonathan da tanti anni, è un instancabile soldato del DIY. Avevamo suonato al suo festival Handmade, è stato uno dei primi a chiamarci e a darci spazio. Dopo aver terminato la collaborazione con 42 Records avevamo inizialmente pensato di uscire solo con lʼetichetta di Manù Bonetti del Fanfulla, MyOwnPrivateRecords: siamo molto amici e lui ha un bellissimo catalogo, fino ad allora aveva pubblicato solo cassette e così gli abbiamo proposto di fare la sua prima uscita in vinile. Nel frattempo però anche Manù, con il suo gruppo Holiday Inn, è uscito su Maple Death e piano piano ci siamo ritrovati a stampare con entrambe le etichette. Siamo molto contenti perché sia con Manù che con Jonathan abbiamo trovato lʼestensione del nostro approccio underground e indipendente.
Il lato A di Falene è un live che avete registrato a porte chiuse al Fanfulla il 25 aprile. Com’è nato quel concerto e come state affrontando il periodo di pandemia?
Leo: Quel live l’abbiamo fatto un po’ per stigmatizzare il fatto che non siamo andati in tour negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Francia, come previsto. Così abbiamo pensato di fare almeno il concerto al Fanfulla, l’unico possibile. Pubblicare la cassetta Falene è stato un modo per non farci bloccare, per trovare delle modalità nuove per non farsi chiudere dentro casa affossati dai decreti legge, anzi per rilanciare un discorso su quello che fai e su come puoi portarlo avanti nonostante tutto. Penso che nei momenti di crisi sia ancora più importante avere chiaramente e criticamente presente quella che è la nostra pratica. A volte ci si fa prendere dallo sconforto ma altre volte la si prende in maniera un po’ più guerrigliera.
China: È stato molto strano ed emozionante suonare nel locale completamente vuoto, mentre normalmente è sempre strapieno. Poi in una giornata particolare come il 25 aprile… Stavolta avevamo un live veramente bello, lʼabbiamo portato tanto in giro ed eravamo molto affiatati, per questo volevamo catturare quel momento nonostante tutto. Il concerto è stato trasmesso sulla web-radio Radio Baraonda, il che ci dava almeno una possibilità di proiettarci allʼesterno.
Avete tanti altri progetti oltre agli WOW, tra cui Shawala e BAD PEACE, che hanno più a che fare con l’organizzazione. Ce li raccontate?
China: BAD PEACE è nato dallʼintersezione tra la ricerca teatrale che stavo portando avanti nel contemporaneo (Accademia degli Artefatti, Deflorian/Tagliarini, Cie Yan Duivendak, Lotte Van den Berg) e il Fanfulla, ovverosia la pratica musicale underground che va avanti da diversi anni intorno a questo circolo Arci a Roma Est. In questo cortocircuito, attraverso questo dispositivo della radio a partire da un letto, abbiamo provato a mettere insieme le cose. È un progetto teatrale di drammaturgia urbana che abbiamo portato al festival teatrale Short Theatre, su invito della direttrice artistica Francesca Corona, con la quale avevo già avuto modo di collaborare. Ci siamo immaginati questa specie di comunità che potesse abitare la parte esterna e gratuita del festival con delle attività e degli eventi minimali, diffusi e continui. Si poteva assistere agli incontri o sedersi sul letto e ascoltare la musica se in quel momento cʼera un concerto o un flusso sonoro. Dietro cʼera lʼimmagine di Bed-in for Peace di Yoko Ono e John Lennon, fatto ad Amsterdam e a Montreal nel 1969, era come una rilettura critica di quel momento di risveglio e consapevolezza politica allʼinterno dellʼambiente artistico, un gesto genealogico-simbolico che ci permetteva di collegarci ai sollevamenti del secolo scorso come i movimenti di fine anni Sessanta e poi di fine anni Settanta in Italia. Volevamo mettere insieme tutto ciò con gli artisti che avevamo incontrato e con cui abbiamo suonato in questi anni al Fanfulla, portando la loro unicità e anche le dinamiche politiche che sottendono ai nostri gesti musicali, dinamiche che spesso nei nostri ambienti passano più attraverso lʼesempio e che non sono esplicite. Volevamo renderle evidenti e farne quasi un manifesto. Il concetto di “cattiva pace” forse nel 2016 non era palese ma ora con la pandemia lo è sicuramente. Il progetto è costruito in forma di alea, di modo che possa mutare e adattarsi alle necessità che emergono a partire dallo spazio in cui si fa: a Short Theatre dal 2016 al 2018 abbiamo sperimentato il formato ampio. In quel periodo avevamo anche una serata al mese al Fanfulla e questʼanno stavamo organizzando una sua ramificazione incentrata sul transfemminismo con la serata “Stai Calma”, che però è durata pochissimo, ma comunque ci siamo divertiti parecchio. Chiaramente abbiamo dovuto interrompere ma abbiamo riattivato la radio e ritrasferito Bad Peace sul virtuale: si è chiamata Radio Baraonda e sostanzialmente la portavamo avanti Leo, Manù, Friederike Schneider ed io con la collaborazione di tutti gli amici che riuscivamo a stanare dal torpore del lockdown. Abbiamo trasmesso per 27 giorni di fila durante la primavera. Poi si è trasformata nella radio del Fanfulla – Trasmissione da Roma Est – e ci siamo organizzati in maniera più ampia; ora ci siamo ritagliati una nostra trasmissione che va in onda ogni domenica.
Shawala invece è nato dallʼintento di creare un piccolo festival guardando anche ad esperienze di festival indipendenti più grandi come lʼHandmade o Musica nelle Valli di Bob Corn; volevamo farlo con gli amici e per gli amici, e soprattutto per riunirci tutti nella natura, in vacanza, perché i musicisti si spostano solo per suonare… Il primo anno ci siamo dati la missione di essere una sorta di spin-off dellʼHere I Stay Festival, organizzato ad agosto in Sardegna dai musicisti della scena locale. Frequentavamo il festival già da anni, suonavano molti dei nostri amici e altre band fantastiche per cui spesso ci ritrovavamo lì e dopo 3 o 4 giorni si tornava a sudare a Roma. Allora abbiamo pensato di organizzare una sorta di rilancio di quel momento, lo abbiamo fatto al Brambles Arts, un circolo di resistenza culturale che sta nel nord della Sardegna vicino a Porto Pozzo. Hanno suonato moltissimi gruppi in pochi giorni ed è stato bello ed emozionante. Poi per due anni lo abbiamo fatto in Liguria: io sono genovese e mi interessava unire lʼambiente naturale della mia infanzia a quello umano della mia vita attuale. Nel complesso Shawala è quasi una festa privata a numero chiuso, i musicisti sono sempre in numero più o meno pari al pubblico, tipo 25 e 25. Si crea così una situazione in cui con il gruppo, oltre a guardarlo, si entra in relazione e la separazione tra chi fa le cose e chi le riceve è più fluida. Questʼanno non lo abbiamo fatto, ma il Meletao organizzato da Xilef Werner, un festival olistico di cura, natura, sport e arti, ci ha ospitato e ci ha permesso di far suonare qualche progetto romano come MariaViolenza, i Trans Upper Egypt, Tropicantesimo e i Tormenta 3000 di Foligno. Il festival è in un posto bellissimo vicino al parco nazionale d’Abruzzo: dopo il lockdown essere sotto la luna piena nella natura incontaminata ha fatto bene a tutti.