NY GRAFFITI, Burden
NY Graffiti debutta sulla lunga distanza dopo qualche ep, producendo Burden con la sua Peace Anthem insieme all’elvetica Präsens Editions, accompagnato dai sax di Daniel Carter e Mario Miron.
Le note a nostra disposizione parlano di un lavoro che parte come elaborazione di una tragedia familiare, e non poteva esserci più adeguata del dub per andare in questa direzione. Per motivi differenti, logistici e spirituali, vengono in mente artisti come Daniel Givens e Off-Keytchen, a mostrare un taglio di metropoli che parte dal proprio cuore, in questo caso spezzato. I bassi che utilizza NY Graffiti, infatti, sembrano creare ponti fra il passato e il futuro: i campionamenti drammatici di “98 Prayers”, tutto sembra salire in quota fotografando un presente disfatto. C’è un sentore di abbandono, di ballo e di musica come di trance, di fuga e di estasi. I beat di “Zolpidem Clocks” a tratti sembrano rintocchi di campane, perfetto ritmo per vivere una città che respira all’unisono, passanti come cellule di un macrocosmo che si fa forte dei suoi diversi rivoli e discendenze. È così che il dub di NY Graffiti suona splendidamente e sempre uguale a sé stesso, drammatico pur senza essere pesante o scuro come in altri artisti che tanto adoriamo: in “Blame” par di sentire una voce nella nostra testa più che nelle cuffie, una brutta scimmia che è difficilissimo scrollarsi di dosso, ma che ci accompagna con una leggerezza fastidiosa, forse proprio perché meno percettibile e mostrabile. Poi altre voci che si incrociano su frequenze diverse, in una “Reach” che ne esce come punto più alto del disco, eterea e sognante. Poi balbuzie e stralci di un mondo che continua a girare e per il quale ancora, evidentemente, non abbiamo trovato il giusto equilibrio e i corretti giri del motore. Ma forse è così che devono andare le cose perché qualcuno ci regali brani da mozzare il fiato come “Approximation”, che mette insieme latente gravità jazz, hard boiled e la nebbia che sale dai tombini. Un disco che cresce ascolto dopo ascolto e che è a suo modo un tributo a una città, dolente ed oscura. Un disco dove il singolo e il collettivo in qualche modo si incontrano, leccandosi l’un l’altro le ferite.
Troweling brick walls
with grief,
the mortar won’t ever fill
all the holes.
When the water drips in
I pretend that I’m dry,
and sing a song
to remember
loss by.