Notizie dal diluvio #2
Troppe, troppe, troppe le uscite di cui dare conto. Il mercato non esiste più, la critica non esiste più, ma la musica buona, ottima, esiste e, banalmente, inesorabilmente, resiste. Immagine di Pietro Bandini di Phocus Agency, che ringrazio.
Luigi Bozzolan, FÁPMU (2018)
Recupero un album che ha già un po’ di tempo sulle spalle, ma che meritava di essere raccontato. Uno squarcio di luce boreale (“Numb”) in un cielo di nuvole compatte e pensose come statue (mi vengono in mente le figure monumentali di un parco visitato a Oslo una decina d’anni fa), un incedere lirico e denso di un senso di sottile, inesorabile minaccia (“Dundret”), come una tempesta a scatenarsi sulle nostre intenzioni e sulla nostra sciocca necessità di dare un nome, di definire, di racchiudere in parole la musica. Potrei citare, e infatti lo faccio, ChristinWallumrød, Glauco Venier (splendido il suo Miniatures su Ecm, incredibile e sintomatico il fatto che non suoni praticamente mai dalle nostre parti), un Bill Evans inseguito da ombre feldmaniane. Queste undici tracce ci hanno messo un po’ di tempo per svelarmi il loro mistero, all’inizio mi sembrava il solito disco di piano solo, ma mi sbagliavo, ed ho fatto bene ad insistere. Luigi Bozzolan, residente in Svezia come Alberto Pinton che ho scoperto con gaudio di recente, è musicista attento, sensibile, non banale. Si muove con ottimo equilibrio tra radure minimaliste, nenie che sanno di folk imprendibile e antico, profondissimi languori jazz che sanno essere struggenti senza mai essere svenevoli. Immaginiamo terre che non abbiamo mai visto ascoltando questi soliloqui per pianofort , limpidi e a volte sintetici come haiku, e se un disco ci lascia liberi di immaginare è un buon segno, non ci servono descrizioni di quello che sappiamo già. Custodisce enigmi che sanno anche inquietare, FÁPMU (i fantasmi di Ligeti di Doom Door Slam, ascoltatela a volume alto al buio, da soli). L’opzione migliore, o forse la più sensata, per chi scrive, sarebbe cercare di rispondere a chi ha suonato il disco di cui si scrive usando le parole come se fossero uno strumento musicale, ma per vicissitudini personali la mia vitamina fantastica è un po’ debole in questi giorni, per cui mi affido al magistero di una grande poetessa, Amelia Rosselli. Aprendo a caso un libro che ho ricevuto in dono, la pagina è tratta da Serie Ospedaliera, e guardacaso io sono appena uscito da un ricovero. Coincidenze?
Note che sorgono abissali dalle frange
delle passioni rimpicciolite al punto
di sembrare veraci. E poi con un coltello
le sdoppio e le decanto, credendomi
fiera al mercato. E poi con l’altro
lato del coltello ne sfinisco i bordi
temendo che nascesse una nuova melodia
a irrimediabilmente compromettere il
mio sonno.
[…]
La musica comunque fa la sua parte
e nell’intendimento di essa risiede
la mia passione
che contorcendosi si
dipinse egualmente spaventata dal lutto
dei suoi grandi occhi e della canzone.
ROBERTO BONATI, Vesper And Silence (Parma Frontiere, 2019)
Direttore del Parma Jazz Frontiere e didatta al Conservatorio locale, dove tra gli altri ha “allevato” talenti come Andrea Grossi, Roberto Bonati in questo lavoro solista compie un vero e proprio viaggio nelle viscere del contrabbasso, di cui vengono esplorate le differenti possibilità timbriche ed espressive in un excursus che si allontana felicemente dal jazz comunemente inteso per giungere ad una indicibile terra di nessuno, quasi una zona di tarkovskiana memoria, dove capiremo finalmente la vanità profonda dei nostri desideri. E quindi quanto conta intanto è raccontarlo, questo passaggio, dirla, questa veglia, cercare di estrarre qualche pepita dal silenzio da cui tutto proviene ed al quale torneremo. Dense di un rigore assoluto ma non per questo rigido, semmai intriso di lirismo intimo e vivo, queste dodici tracce (undici autografe e “Solveigs Sang” di Edvard Grieg) mi fanno venire in mente il violoncellista olandese Ernst Reijeseger nelle sue magnifiche colonne sonore per i film di Werner Herzog; lo stesso senso di monumentale fragilità, di forza sommessa e tellurica, di invisibile, inesorabile, naturale deriva, come un requiem per tutto ciò che passa e lascia una scia. Registrato in un’abbazia del XIII secolo nei dintorni di Parma, che restituisce risonanze antiche e misteriose, Vesper And Silence è il manifesto solitario di un musicista che guarda senz’altro a Nord (un certo suono Ecm, la fitta relazione con la Norvegia testimoniata dall’attività professionale di Bonati al Conservatorio di Parma e dal programma del festival da lui diretto dal 1996), ma riesce ad essere assolutamente personale e convincente, e soprattutto lontanissimo da ogni retorica. Un incedere assorto, stupefatto, come un procedere a tentoni nel buio, che anima i movimenti naturali, i respiri di un disco ispirato, segnato da una inquietudine zen che sa quasi farsi filosofia del suono (“The Eternal Spiral”), tra abissi scabrosi, radure spazzate da gelidi venti melodici (“Sabbie Bianche”) e fossili di ballate cadute a terra come foglie (“Melodia d’Ottobre”). Non so se Bozzolan e Bonati si conoscano personalmente, ma sarebbe bello se averli accomunati in questa rubrica fosse l’occasione per farli dialogare in musica, credo potrebbero uscirne delle belle.
HOBO, Edmund (Molkaya Rec, 2019)
Roberto Bonati, nella penultima edizione del suo festival, ha organizzato un memorabile concerto in memoria di Misha Alperin, scomparso nel 2018 , dove suonavano membri del Moscow Art Trio (Sergey Starostin, voce, e Arkhady Shilkloper, corno francese) e dell’Oslo Art Trio (Evelina Petrova, fisarmonica e Roberto Dani, percussioni). Proprio a quelle imprendibili e fertilissime contaminazioni etno-jazz, come alle acrobazie dei grandi Pago Libre (dove militava lo stesso Shilkloper) alle mie orecchie suona vicino questo Edmund, dedicato dall’autore delle composizioni, l’eclettico Massimo Giuntoli (dalle mie parti è passato a presentare il progetto Found in Translation, dove mette in musica testi provenienti dalle remote ed ovviamente inesistenti regioni della Molkaya, ma ha in piedi davvero molte cose diverse, andate in giro per www.massimogiuntoli.com per farvi un’idea), ad un viaggiatore sui generis incontrato una quarantina di anni fa in un ostello a Inverness, in Scozia. Proprio questo spirito romantico e utopista, quasi donchisciottesco, pare animare questi otto pezzi, con Giuntoli ad harmonium, glockenspiel e flauto dolce ed Eloisa Manera al violino. L’accostamento timbrico inusuale si accompagna ad una ispirazione sempre alta che si mantiene per tutto il lavoro, con un beat sempre presente seppure non suonato; il groove risulta paradossalmente dall’assenza di uno strumento ritmico ma anche grazie all’insistenza su figure ritmiche dispari che ci riportano dritti dritti ai gloriosi giorni della scuola di Canterbury, sicuramente un punto di riferimento per il duo, tanto che ha portato in giro un tributo al grande Robert Wyatt. I languori cadenzati di “Tanzer”, il folk immaginario di “Drowsing Ball”, la fuga impossibile di “Amazing Maze”: Hobo è un inno alla libertà ed alla creatività, convincente ed avvincente, tra variazioni su idee bartokiane (“Mikrokosmos Variations”), una sensazione di musica in alta quota che non so ora come meglio definire e forse va bene così, che questo è un album che per fortuna regala più domande che risposte, suonando fieramente, coraggiosamente, consapevolmente e con gioiosa incoscienza, ancora una volta, in opposition alla musica precotta e predigerita.
IVANO NARDI TRIO + 1, Homage To Kandinsky (Poppyficio, 2019)
Coraggioso e molto buono il lavoro del trio del batterista romano Ivano Nardi, con Eugenio Colombo a sassofoni e flauto, Roberto Bellatalla al contrabbasso e Giancarlo Schiaffini al trombone, combinati in diversi assetti lungo il corso di un disco in qualche maniera assolutamente classico ma vivo e pregnante. Un incedere sornione, composizioni come quadri astratti che non si rapprendono mai attorno ad una idea ben precisa ma vivono di libertà, di dialogo, di improvvisazione vibrante e mai gratuita. Un suono che rimanda alla stagione del free politico, quando suonare in un certo modo significava pensare il mondo in un altro mondo; una blackness sghemba e vagamente corrucciata muove dodici tracce dove si alternano in sapiente equilibrio furori (“Rosso”) e languori, estasi e discese zen che sanno quasi di India (“Giallo 2”, “Chiaro/Scuro”), scaramucce tra il lirico e l’informale (“Arcobaleno 2”) ed agguati alla retorica (“Viola”). Come diceva proprio il grande Vasilij, l‘occhio aperto e l’orecchio vigile trasformeranno le più piccole scosse in grandi esperienze.
FEDERICA COLANGELO ACQUAPHONICA, Endless Tail (Folderol, 2019)
Restiamo a Roma, ma con occhi ed orecchie spalancate verso il mondo, con Federica Colangelo, pianista con alle spalle un curriculum eclettico e studi e lavoro all’estero tra Londra, India ed Olanda, che con questo quartetto giunge al suo terzo lavoro, pubblicato da quella Folderol che ci ha già solleticato i padiglioni in tempi non lontani con l’ottimo Inland Images di O-Janà ed ha in cantiere a breve il nuovo disco di Francesco Massaro e Bestiario, da cui è più che lecito attendersi meraviglie.
Poliritmia, rigore, nitore, equilibrio, dinamica: gli elementi sono dosati con sapienza e cuore in queste sette composizioni, tutte della leader, affiancata da Michele Tino ai sassofoni, Marco Zenini al contrabbasso ed Ermanno Baron alla batteria, che abbiamo già avuto modo di ascoltare con grande piacere sia con Ayler’s Mood che con Acre, uno dei segreti meglio riposti della musica creativa italiana oggi. L’architettura al tempo stesso libera e rigorosa di “Spigoli” può far pensare a certe pagine del catalogo PI Recordings, ma al posto della nevrosi urbana che agita tanti di quegli spartiti qui abbiamo un sentimento più aperto, che se da un lato può far pensare al lavoro di Vijay Iyer con la musica indiana dall’altro invece non tiene così lontani dalla migliore Rita Marcotulli, con una scrittura melodica che ha un che di cinematografico. Talora le composizioni non suonano totalmente a fuoco (l’incipit di “Dancing Figure” che poi fiorisce in qualcosa di diverso) in altri momenti (“Spazi Pieni E Vuoti”) il titolo spiega perfettamente ciò che ascoltiamo, come una dichiarazione d’intenti di un lirismo assorto e matematico ma al tempo stesso naturale, quasi biologico. Ascoltare questo disco a volte somiglia al salire una – come da titolo della penultima traccia – “Scala A Chiocciola”, perdendosi in spirali architettate con grazia ed arte della costruzione; noi saliamo in alto e intuiamo il processo, godendo del risultato estetico e funzionale. Enigmatica e molto riuscita anche l’ultima composizione, “Aftermath”, con un felice incastro di differenti cicli ritmici ed un uso scientifico e poetico delle dinamiche che non lascia prigionieri. Con questo disco Federica Colangelo ci ha fatto intravedere bagliori che aspettiamo diventino vere e proprie esplosioni nel prossimo futuro.
SONOROVETRO (Setoladimaiale, 2019)
Ci allontaniamo dal jazz, dal minimalismo, dall’improvvisazione, dal free, ci allontaniamo da tutto il detto e da tutto il dicibile per concludere questa seconda puntata di “Notizie dal diluvio” con un disco appunto indicibile. Frutto della rielaborazione a dodici anni di distanza di una performance registrata nel 2007, Sonorovetro è Dionisio Capuano (storica penna di Blow Up, qui a lastra di vetro e microfoni a contatto), Carlo Fatigoni (laptop e live processing), Marcellino Garau (elaborazioni elettroacustiche dal futuro) e Morena Tamborrino (voce ed azione scenica). I titoli sono frammenti di poesie, questi suoni sono frammenti aguzzi di poesie che feriscono la nostra carne di burattini elettrochimici e fanno sobbalzare e spaventare come una carezza da una mano remotissima ed umana, troppo umana. Come un folk da una sala operatoria intergalattica dove un demiurgo dottore tenta di curare mali incurabili, sapendo che il primo, inevitabile drone, è il pulsare del nostro sangue, il mantice del nostro respiro: elettroacustica leopardiana, un naufragare dolce e lividissimo in un mare boreale, come un Solaris che dà vita a quanto pensiamo nella condanna del ricordo. Non si può aggiungere altro alle ultime righe delle note di copertina dello stesso Capuano: “Squarci e scorci inaspettati appaiono all’ascolto. Il suono è, oggi, più trasparente di quanto fu quell’estate, avuto nel rivelare le intenzioni profonde e dirci chi siamo”.