Noi insistiamo: altri due dischi del 2019 della We Insist! Records
“Life’s always the same, always the same, always the same. Then it changes”. Così Steve Lacy, e questa frase risuona con un’eco particolare in questo momento di routine sospesa, di silenzi irreali, di pomeriggi sconfinati, di solitudine coatta.
ALBERTO BRAIDA, In Love With The Moon
Come diceva in questi giorni il Maestro Ennio Morricone “I canti sui balconi mi fanno simpatia ma oggi sono inopportuni”. E poi: “La musica adesso non mi consola”. Apro la finestra, la voce del bimbo dei vicini sotto testimonia la vita nel deserto residenziale, e lascio uscire le note di questo In Love With The Moon, quaranta minuti abbondanti di piano solo pensati e suonati da Alberto Braida, da Lodi, pianista classe 1966: al suo attivo una vasta serie di collaborazioni con gente come John Butcher, Cristiano Calcagnile, John Edwards, Lisle Ellis, Massimo Falascone, Hans Koch, Peter Kowald, Giancarlo Locatelli, Paul Lovens, Paul Lytton, Edoardo Marraffa, Phil Minton, Larry Ochs, Wadada Leo Smith, Frances-Marie Uitti, oltre ad essere parte de Pipeline di Giancarlo Nino Locatelli (notevole il suo solo, Situations, sempre dedicato a Lacy, uscito su We Insist! nel 2018) e dei Calipso, passati lo scorso autunno all’Area Sismica, con Edoardo Marraffa, Cristiano Calcagnile, Luc Ex e Audrey Chen. Il disco, pubblicato l’anno scorso da We Insist! Records (che ha fatto uscire l’ottimo Lubok del Blend 3 del contrabbassista Andrea Grossi, uno dei miei dischi dell’anno passato), è ottimo e, per quelle curiose coincidenze del caso, funziona benissimo facendolo suonare in contemporanea con lo Steve Lacy di “Prelude To A Kiss”, o semplicemente racconta la storia del suo incontro con Coltrane: tutto questo l’ho ascoltato grazie ad un post di Ferdinando Faraò (deus ex machina di Artchipel Orchestra) che ha condiviso sulla sua bacheca un frammento di quasi quindici minuti di Conversazioni con Steve Lacy di Ciprì e Maresco. In diversi momenti sembrava che le musiche dialogassero, la mia casa, dove abito solo, pareva abitata da un manipolo di musicisti rapiti dalla febbre dell’invenzione: mentre il bimbo dei vicini si fa la radiocronaca di calcio qua sotto con il suo papà, la mia sala viene allagata da una luce nitida e da un soliloquio pensoso, sul bordo del silenzio. Nessuna affermazione, nessuna retorica, solo ipotesi, una conclusione che giunge quando non te lo aspetti, trame che si disfano dopo essere state costruite, come in un mandala acustico creato con pazienza e libertà interiore, conflitto e dolcezza, cluster, satori, nubi e radure, domande, un ampio respiro in quattro movimenti che coniugano felicemente sghembi lampi monkiani, un incedere che può ricordare Misha Mengelberg o il Paul Bley di Open, To Love. Sulla strada qua sotto una coppia giustifica il suo passaggio con il bimbo e il papà che giocano a pallone dicendo: “Prendiamo una botta d’aria, abitiamo qua dietro, dai campi da rugby”.“Life’s always the same, always the same, always the same. Then it changes”. La recensione l’ho scritta, il disco l’ho già ascoltato parecchie volte, potrei toglierlo, per passare ad un altro, e continuare a lavorare, ma sarebbe come interrompere un respiro adesso, e bisogna avere cura dei gesti, ora più che mai. Aspetterò la fine, non c’è davvero nessuna fretta.
GABRIELE MITELLI, The World Behind The Skin
Abbiamo già scritto di Gabriele Mitelli ed anche questo disco in solo ne conferma lo spirito libero e l’attitudine esplorativa. Il polistrumentista bresciano, animatore del Ground Music Festival, inizia con una eloquente “Trip To The Abysses”, e sono tredici minuti di profondità e ricerca nel buio: cornetta, sax soprano, genis (ovverosia flicorno contralto), elettronica, oggetti e voce. Questi gli strumenti di cui si serve il musicista per intraprendere un viaggio che appassiona e incuriosisce, sembra di essere a bordo di una nave rompighiaccio (il drone freddo e quasi pansonico dell’incipit che viene poi trafitto da un soprano selvatico, ispido) che proceda verso territori inesplorati o nel mezzo di una bufera, novello Roald Amundsen, nel Mar Glaciale Artico. Immaginiamo allora creature mai viste, come quelle del magnifico “Encounters At The End Of The World” di Werner Herzog (un documentario imperdibile del 2007, recuperatelo se non lo conoscete), spazi siderali e marini, gelidi, siderali e intimi. Fertili di minacce che promettono oscurità e spettri colmi di fascino e di altre cose inattese i suoni che invitano a perdersi in “Just Take Another”, dove compare una voce rituale a invocare non sappiamo cosa, ma ci (af)fidiamo. Finiamo poi in territori percussivi che sembrano quelli che amava battere Z’EV in The Fisherman’s Prayer, fino a che poi la marea dei riverberi non scende per lasciare spazio alla risacca del suono minimo, nudo, che poi torna a crescere, cocciutamente, nell’ombra, fino ad inondare lo spazio (il disco è un live registrato a fine 2017 nella CSAC Abbazia Valseriana di Parma) e a intonare una specie di informalissimo mantra galattico. Molto efficace l’uso dell’elettronica e del rumore in funzione sempre pienamente musicale. Come dice Nicola Di Croce nelle puntuali note di copertina . “Al di là della pella c’è un mondo senza fine. Siamo a bordo pronti a partire, senza un inizio e una fine, navighiamo in un oceano increspato e senza punti di riferimento, a volte riusciamo a scorgere la terra, ma dopo aver imparato a navigare non sentiamo davvero più la necessità di un approdo”. 2020 – Odissea nello Spazio.