Node Festival, 22/10 + 9-12/11/2016
Modena.
Torna, dopo un anno di pausa, il festival Node, dedicato alle arti elettroniche e digitali, e con una rassegna davvero di ottimo livello, al quale la città, e non solo (diverse le facce più o meno note da fuori e gli accenti non emiliani captati) risponde con un’affluenza davvero massiccia nella serata di sabato (eravamo presenti anche mercoledì e la splendida location della chiesa di San Bartolomeo era piena per il concerto di Lubomyr Melnyk, che nulla aveva a che vedere con l’elettronica, il che dimostra la visione ad ampio raggio degli organizzatori della kermesse). Il colpo d’occhio alla fine dello spettacolo di Robert Henke, noto ai più per i suoi trascorsi nel progetto Monolake, è davvero notevole: il Teatro Storchi è stipato in ogni posto ed ordine (ottima l’idea, già sperimentata con successo in passato, di portare questi set in una cornice solo apparentemente in contraddizione con il suono proposto).
Procediamo con ordine: dopo la preview del 22 ottobre (con l’inaugurazione della mostra e una performance dedicata dell’artista svizzero Zimoun), il 9 novembre tocca al pianista canadese di origine ucraina Lubomyr Melnyk aprire le danze con la sua continuous music. Un flusso costante di note che sembra molto più easy all’ascolto di quanto non sia all’esecuzione, per una performance durante la quale l’artista, che sembra totalmente immerso nella sua ricerca, generosamente si sofferma a spiegare l’origine delle composizioni e il mondo che lo anima. Trovo che il solo piano possa essere un terreno un poco scivoloso quando si esce dal jazz o dai mostri sacri della classica, ma Melnyk riesce ad affascinare il pubblico con le sue circonvoluzioni, tratte dall’ultimo lavoro, Illirion, uscito per Sony Classical quest’anno. In futuro sarebbe molto bello poter ascoltare una interazione tra questo pianismo tecnico e fluviale e magari qualche screziatura elettronica, che crei spaesamenti e crepe nel wall of sound del nostro. Cosa succederebbe alle lunghe e meditabonde costruzioni del pensoso sciamano del nord (l’immagine e il tono della voce lì portano…) se venissero sottoposte a un risciacquo al silicio come quello che Vert fece al Köln Concert di Jarrett? Chissà…
Perse le serate di giovedì e venerdì, perché purtroppo e per fortuna non siamo ancora robot (anche se resta il rammarico per non aver potuto assistere ai live di Giuseppe Ielasi e Giovanni Lami / Enrico Malatesta), passiamo direttamente a sabato. Dal punto di vista della risposta di pubblico, dicevamo, la serata è stata assolutamente trionfale, anche a livello qualitativo miglior sigillo non ci sarebbe potuto essere per un festival intelligente e maturo come questo, al quale davvero dobbiamo fare grandi complimenti e augurare lunga vita.
In apertura l’anglo-cingalese Paul Jebanasam, coadiuvato per la parte video da Tarik Barri, che tra l’altro ha collaborato in passato proprio con i Monolake di Henke. Un set affascinante e molto emozionante, nel quale i due ripropongono il disco Continuum: un debole tramestio di percussioni filtrate, come movimenti di divinità perse nell’iperspazio, pause, silenzi carichi di attesa, poi squarci di luce ad aprire le nuvole del video (in alcuni frangenti davvero straordinario), come a sancire l’inizio di qualcosa di epico, di maestoso. Linee ascensionali di synth, semplici e nitide, ma sempre poi corrotte da ritmiche frastagliate e refrattarie a qualsiasi idea di ritmo riconoscibile. Continuum sembra il racconto di uno smarrimento in uno spazio post-umano.
L’equivalente audio-video in versione cyber de “La Strada” di Cormac McCarthy o un degno contraltare a Interstellar di Christopher Nolan. Oppure una versione beta delle escursioni meditabonde e celestiali dei Popol Vuh sulle pellicole di Herzog. Fughe ipnotiche in rosso, ipotesi di melodia che subito entrano in collisione con rumori e brontolii digitali: stupefacente l’interazione tra audio e video, anche se, a parer mio, forse la parte video è stata ancora più bella di quella audio. Scindere in due questo vero e proprio viaggio non ha molto senso, però: l’esperienza nel suo complesso è forte ed immersiva, e se manca un centro a cui aggrapparsi durante quest’esplorazione di altri mondi è perché il centro, in tutti i sensi, è andato in frantumi.
Molto più geometrica e fisica la performance di Henke, che si posiziona al mixer, à la Karlheinz Stockhausen. Qui il discorso assume figura e ritmo, un ritmo martellante eppure mai ansiogeno, la battuta in 4/4 tipica della minimal techno che permette di andare a tempo col piedino e riconnettersi con il corpo dopo l’esperienza lisergica di Continuum. Un set audio-video davvero riuscito anche questo, con il laser che disegna forme semplicissime che rispondono alle pulsazioni della musica come i muscoli rispondono ai nervi. Ipnotico, massiccio, elegante, semplice ma non banale, coinvolgente ma non danzereccio nel senso deteriore del termine: Lumière sembra un omaggio alle meraviglie ed al senso di scoperta di Edison, di Tesla, delle prime camere oscure, del primo cinema.
Il sound design e il video sono classici e minimali, i bassi che ti aspetti, quelli che ti fanno vibrare la pancia, arrivano solo nel bis, ma il tipico suono algido ed inesorabile di scuola tedesca ancora una volta non fa prigionieri.
Un centro pienissimo, e alla fine del trip il teatro esplode in un boato.
Ci vediamo l’anno prossimo al Node?
Grazie allo staff del Node Festival e ad Emmanuele Coltellacci per le foto concesse.