NICOLA RATTI, The Collection
Nicola Ratti giunge sulla Room 40 di Lawrence English con questo decimo lavoro a suo nome, che rappresenta un campionario delle possibilità della sua arte: come da lui stesso dichiarato, Collection fotografa anche la fatica di entrare in studio ogni giorno senza avere un’idea guida ben precisa, senza avere scadenze. Un audioritratto, quindi, del sound artist al lavoro, in solitaria, nel suo antro.
E anche stavolta dalla caverna escono suoni magici: nulla mi toglie dalla testa che sia fondamentale la sua esperienza pregressa come architetto, perché le composizioni sono costruite con grande equilibrio, con perfetta economia di mezzi, sono nitide, essenziali, funzionali, non ci sono sbavature. Nove pezzi che sciorinano tutto il vocabolario consueto, non più ignoto ma nemmeno risaputo, di Ratti, tra battiti che sanno di umanesimo techno (“L6”), suoni di synth sempre pregnanti e significativi, deboli segnali morse (“r402”) dal gusto kraut che sembrano un po’ un’autopsia (c’è un che di clinico, a volte, in questo materiale) dei To Rococo Rot, finché poi non si apre una porta in un altro mondo e si viaggia dalle parti dell’imprendibile Omit (The Tracer, per chi scrive un vero capolavoro, oltre che un saggio su come fare un disco di elettronica con pochissimi mezzi). “L4”, invece, è una sorta di dub marziano con le tipiche percussioni fluide, delicate e al tempo stesso inesorabili, che sul finale si accartoccia su un’altra cadenza, pur restando vago, etereo e comunque sensuale e minaccioso. Un enigma di tre minuti e trentasette secondi. “L1” è un Burial captato da radar lontani: un sottile senso di pericolo pervade un brano fatto di suoni seducenti, elusivi, sgranati ed a loro modo spietati, inesorabili. Con “r40” penetriamo silenziosamente in un qualche sottomondo: gracidare di rane di silicio, microscopici tamburi del futuro a pulsare vite aliene, un’architettura (appunto) circolare e perfetta che avvolge nelle sue spire e non lascia scampo, per un groove elusivo che ricorda in parte l’ipnosi iterativa del maestro Philip Jeck. “L8”, dal canto suo, sa di Africa ancestrale e futuribile, di African Head Charge liofilizzati e riportati alla disciplina, non più fatti di canne ma sotto lo stretto controllo di un rigoroso medico dei laboratori Sandoz. “r401” si distende su una durata finalmente più lunga e in sette minuti buoni ci porta semplicemente di là, dove l’ossigeno e la gravità sono solo un pallido ricordo. E da questo oblò cosmico, persi dietro la scia di una stazione orbitante sovietica, osserviamo (“L7”) con un sottile e indicibile languore, con un senso di umanissima distanza, con l’esatta consapevolezza di una lontananza incolmabile, il pianeta Terra farsi sempre più piccolo, fino diventare irraggiungibile.