NICK CAVE & THE BAD SEEDS, Wild God
We’ve all had too much sorrow, now is the time for joy, afferma il “wild ghost”, il fantasmatico ragazzo dalle sneakers giganti, che agita il sonno di Nick Cave in “Joy”, il manifesto programmatico del nuovo album Wild God – registrato tra Provenza e Londra, pubblicato da Play It Again Sam – nonché il brano più esteso in scaletta, guidato da un enfatico corno francese. Il fantasma sarà ancora una volta quello di Arthur o dell’altro figlio perduto, Jethro? I woke up this morning with the blues all around my head / I felt like someone in my family was dead. In ogni caso, Cave compie due step: dopo dischi che affrontavano più o meno coscientemente lo shock del lutto e la sua visionaria elaborazione, soprattutto nel capolavoro Ghosteen già pervaso da un immaginario fortemente biblico, cerca la grazia, cerca in maniera ricorrente mani che si intrecciano e slanci di felicità; dopo la reazione al lockdown pandemico del più crudo e materico CARNAGE, condiviso con il solo Warren Ellis, che rimane unica spalla in fase di produzione, torna alla dimensione di gruppo dei Bad Seeds al completo, ai quali si aggiungono Colin Greenwood al basso e Luis Almau alle chitarre acustiche, oltre al coro femminile Double R Collective diretto da Wendi Rose.
L’afflato trascendentale che animava Ghosteen sfocia in un’autentica elevazione, una liberazione dalla sofferenza tramite la conversione. Cave, nel misticismo liturgico di “Conversion”, si dice infatti Touched by the spirit and touched by the flame, reso addirittura impermeabile al dolore ordinario. Questioni di Fede, speranza e carneficina, dal titolo del libro dove l’autore australiano rifletteva a briglie sciolte sui grandi temi dell’esistenza e della morte.
Musicalmente, abbiamo a che fare con dieci canzoni nel senso classico del termine, tra rock e gospel, tanto da rammentare certe soluzioni stilistiche di Abattoir Blues / The Lyre Of Orpheus. Non sorprendono eppure conquistano via via al solito con eleganza i saliscendi tra sacro e profano di “Song Of The Lake”, i palesi collegamenti a “Jubilee Street” della title-track in liberatorio crescendo – mentre il dio selvaggio, simile agli umani, ambisce ironicamente a quel che ambiscono tutte le divinità, cioè dei validi emissari – oppure l’arte della ballad che è “Long Dark Night”, sino alla conclusione affidata agli appena due giri di orologio di “As The Waters Cover The Sea”, preghierina di resurrezione a evocare pace e buone novelle.
Ci sono anche episodi che proseguono per fortuna in quella direzione maggiormente sperimentale sondata nei precedenti tre/quattro capitoli di studio, a costituire una longeva e straordinaria fase a livello di qualità e vis poetica: “Final Rescue Attempt”, forse dedicata alla moglie Susie, di certo dedicata a un incontro narrato come un’ulteriore e salvifica conversione, con le sue serpentine elettroniche, nonostante la progressione di accordi al pianoforte sia in pieno standard caveiano; “O Wow O Wow (How Wonderful She Is)”, dedicata ad Anita Lane, scomparsa nel 2021, che riappare in vecchie registrazioni telefoniche di nostalgici ricordi (Do you remember we used to really, really have fun? […] I guess that’s how we’d make up songs!), con vocoder in sintonia con l’Alan Sparhawk dell’imminente White Roses, My God. C’è poi “Frogs”, la traccia più vicina a Ghosteen, nei baluginii psichedelici che risentono probabilmente del mix da LSD di David Fridmann e nei riferimenti animali: qui gli anfibi sguazzano tra alti e bassi, nella pioggia di una domenica del Signore. Riferimenti animali che tornano in “Cinnamon Horses” – tornano per la precisione i cavalli che erano un tempo bright, luminosi, e si fanno addirittura dolcissimi, in questo meraviglioso pezzo che trasforma Cave nel vampiro bianco della Canzone. Wild God è il suo castello, nelle cui stanze legifera e saltella, beato, in compagnia dei propri amabili spettri.