NICK CAVE & THE BAD SEEDS, Ghosteen
Se David Bowie, con Blackstar, aveva cantato la sua stessa morte, in diretta, Nick Cave canta l’Eden, il ricongiungimento celeste con il figlio Arthur, caduto nel 2015 da una scogliera, dalla Terra. Qual è il miracolo? Lui che ha sempre visto le tenebre, qui sprofonda nella luce.
Ghosteen è il fantasma del figlio adolescente che parla, oppure è lo spirito che unisce l’artista al suo pubblico, in una liberatoria catarsi? Comunque sia, è qualcosa di soprannaturale. Cave in persona annotava nel libro di appunti on the road, Sick Bag: Sono un sistema nervoso che va avanti a rime e fantasmi.
Ghosteen è un disco di preghiere in ricordo dei propri cari: al centro c’è la voce di Cave, mai così a nudo, sostenuta prevalentemente da eteree trame di sintetizzatori e loop. I Bad Seeds ci sono ma – fatta esclusione per il braccio destro Warren Ellis, compagno di scorribande anche nel campo parallelo delle colonne sonore – restano un passo indietro, come si conviene quando si ha a che fare con una personale elaborazione del lutto. Batteria, basso, percussioni e chitarra sono pressoché impalpabili, salvo rare eccezioni.
Presentato su YouTube e pubblicato quasi a sorpresa, Ghosteen fa seguito a due capolavori come Push The Sky Away (2013) e Skeleton Tree (2016), rappresentando in un continuum di inedite soluzioni stilistiche la conclusione di un’ideale trilogia, magari – speriamo di no – di una carriera che va avanti da circa mezzo secolo. Push The Sky Away, una rinascita artistica, emanava bagliori. Skeleton Tree spalancava la porta sulla sofferenza, su una cupezza ancestrale. Primo album a essere stato interamente composto dopo la maledetta estate di quattro anni fa, Ghosteen è invece un arcobaleno che riflette i colori tenui della pace e della pacificazione, le parole vergate a penna di William Blake, Sylvia Plath e William Butler Yeats.
Le canzoni del primo album sono i bambini. Le canzoni del secondo album sono i genitori. Ghosteen è uno spirito migrante. Otto tracce sul primo lato, tre – di cui un paio molto estese – sul secondo. “Spinning Song”, gelida, evoca lo spettro di Elvis Presley, emblema del rock, della mitologia americana, il King of Rock and Roll che King Ink aveva già incontrato in passato per la cover di “In The Ghetto” e la stesura di “Tupelo”. La meta è chiara da subito: Peace will come, a peace will come, a peace will come in time / A time will come, a time will come, a time will come for us. Poi la quiete arriva davvero: “Bright Horses” sembra riferirsi ai cavalli bianchi raffigurati, insieme ad altri animali, sull’artwork di copertina firmato da Tom duBois, che ci ha ricordato Horses And High Heels di Marianne Faithfull. Si sente il violino di Ellis, in una sfumatura finalmente calda, e si sentono per la prima volta dei cori angelici, di una semplicità disarmante. Oh, the train is coming, and I’m standing here to see / And it’s bringing my baby right back to me. “Waiting For You”, dove maggiormente nitido echeggia il pianoforte, è ancora più esplicita nel suo soave senso dell’attesa: “Cause I’m just waiting for you / Waiting for you, waiting for you / To return”.
“Night Raid” è una ballata dedicata a entrambi i gemelli avuti dalla moglie Susie Bick: oltre ad Arthur, scomparso, c’è infatti Earl. Le sperimentazioni ambient accompagnano immagini bibliche e vocalizzi femminili semi-gospel che rimandano ad Abattoir Blues / The Lyre Of Orpheus, un altro doppio per l’appunto. Gesù e i puledri tornano in “Sun Forest”, uno dei pezzi-chiave in scaletta: il tempo non è una linea retta e il Paradiso è questo, una foresta di alberi che bruciano sotto al sole con una spirale di bambini in poetica ascesa. Sull’outro in falsetto, più in zona James Blake che non degli affini Leonard Cohen o Scott Walker: I am here beside you / Look for me in the sun. Il viaggio riparte con la cinematica “Galleon Ship”, una “The Ship Song” degli anni Dieci, in questo caso Searching for the other side. È quindi il momento di “Ghosteen Speaks”: “I am beside you / look for me”. L’acquatica “Leviathan”, vicina agli ultimi Radiohead, minimale e ossessiva, a tratti esotica come certi The Creatures, è una necessaria auto-ipnosi.
Sulla seconda facciata quattro minuti di drammatica intro strumentale avviano una title-track che, dal post-punk degli albori, si rifugia in una sorta di post-prog cosmico ed esoterico: chi l’avrebbe mai detto… È un racconto che – tra allegorie animali, gli orsi, e immancabili apparizioni del Signore – trova la sua illuminazione: There’s nothing wrong with loving something / You can’t hold in your hand. Il testo-manifesto è però con ogni probabilità quello di “Fireflies”, non a caso srotolato con i toni ieratici dello spoken: nella foresta, ancora, accanto a Gesù morente tra le braccia della madre, I am here and you are where you are. Alla fine, il pallore di “Hollywood” si ricollega a “Spinning Song” come a chiudere un cerchio di redenzione: l’ultimo messaggio è quello dell’accettazione della morte, attraverso il ricorso a una parabola buddista, mentre il canto si assottiglia sul filo della rottura. Everybody’s losing someone. Già, ecco perché Ghosteen è un’opera d’arte con cui tutti dovrebbero fare i conti. Al contrario dei mortali, resterà.
Difficile dire quante volte la si possa ascoltare, perché fa troppo male. Forse la si dovrebbe ascoltare nel disperato tentativo di stare bene.
Tracklist
Part One
01. Spinning Song
02. Bright Horses
03. Waiting for You
04. Night Raid
05. Sun Forest
06. Galleon Ship
07. Ghosteen Speaks
08. Leviathan
Part Two
01. Ghosteen
02. Fireflies
03. Hollywood