Creature del sole: tre ristampe dei Nebula (Dos E.P.’s, Let It Burn e To The Center)
Circa un ventennio fa il me stesso tardo-adolescente scoprì con stupore che i suoi adorati Fu Manchu avevano perso in un colpo solo il chitarrista Eddie Glass e il batterista Ruben Romano. Appassionato com’ero di stoner rock, che in quel periodo proliferava in maniera incontrollata, sapevo che quei due non avrebbero appeso gli strumenti al chiodo, speravo anzi che avessero ancora parecchio da dire e così attesi aggiornamenti dai trafiletti che la stampa specializzata dedicava all’epoca a questo genere di notizie.
Qualche mese più tardi iniziarono a circolare le prime voci riguardo i Nebula e da lì a poco avrei stretto tra le mani una copia di Let It Burn, disco che avrebbe preso a sberle la mia concezione di stoner rock, imponendomi uno studio matto e disperatissimo di Hendrix, Vaughn e Zeppelin (ero un discolo e non seguivo, all’epoca). Era quel sound ruvido, genuino e senza troppi fronzoli che tanto mi piaceva, ma, stavolta, c’era anche una componente più raffinata, chitarristicamente eccellente, che ammaliava e spingeva a gustarsi nota per nota le parti soliste che impreziosivano le composizioni, identificandosi come vero valore aggiunto, e mai come orpello inutile. Non era più solo una gara a chi sparava il riff più grosso e monolitico (che da lì a pochi anni sarebbe invece diventato, ahimè, monotono), Eddie Glass era finalmente libero di dare pieno sfogo alla sua maestria strumentale e alla sua voglia di scrivere canzoni che sarebbero state via via sempre più rock e sempre più lontane dalla psichedelia prêt-à-porter.
Oggi mi ritrovo tra le mani delle belle ristampe in digipack, realizzate da Heavy Psych Sounds, dei primissimi lavori dei tre americani: il già citato Let It Burn, la raccolta Dos EPs e il primo full length, To The Center. Un’iniziativa lodevole, che va a recuperare l’esordio di una band seminale e tornata attiva giusto l’anno scorso e che, ora più che mai, merita un ripasso approfondito.
Partendo dalle canzoni di Dos EPs, che raccoglie, appunto, i primi due ep prodotti dalla band (Nebula e Sun Creature), possiamo incontrare una scrittura che raramente poteva essere apprezzata su altri dischi stoner rock alla fine degli anni Novanta, quando si stava già iniziando a premere sul fuzz sempre più forte e si stavano portando le accordature sempre più in basso. Qui, invece, Glass, Romano e Abshire recuperano un sound che strizza l’occhio a diverse icone del rock e dell’hard rock (“Long Day”, “Rocket”, “Bardo Airways”), giocando ora con la forma canzone più classica e ora con sferzate più sporche e grezze (“Fall Of Icarus”, “Rollin’ My Way To Freedom”).
Let It Burn fu per me una folgorazione sulla via di Damasco: la prima volta che l’ascoltai, fu come se dalla confezione del disco fosse saltato fuori un biglietto con scritto “Sì, si può suonare stoner anche così!”. Canzoni dinamiche, accattivanti, ritmi sostenuti senza mai sconfinare in territori estremi, suoni sporchi ma veri, in una parola, rock. La title-track, “Elevation” o “Dragon Eye” regalano emozioni, passando in tutta scioltezza da un pieno a un vuoto, senza sentire la necessità d’ingigantire a sproposito il suono per risultare pesanti. “Down The Highway” è forse il pezzo più ruffiano e riuscito del disco, che simboleggia la devozione di Glass per la vecchia scuola e il suo innegabile talento nel rendere brillanti soluzioni e stilemi che molti ritenevano vecchi e stantii.
Se i primi due dischi possono essere considerati come un laboratorio, To The Center inizia a delineare in maniera chiara quella che sarà l’identità del gruppo. Sebbene i tre non fossero ancora nel pieno della loro maturità (consiglio l’ascolto compulsivo di Atomic Ritual e Apollo), qui possiamo iniziare a gustare episodi come la title-track, “Freedom” e “You Mean Nothing”, che preludono a una maniera di comporre e arrangiare più personale e libera, affiancata da pezzi trascinanti e d’impatto come “Come Down”, “Whatcha Lookin’ For” e “Clearlight”, ancora carichi di quella vena punk rock che, fortunatamente, non s’è mai esaurita nei Nebula e che ancora riaffiora di tanto in tanto nei dischi più recenti.
Una piccola operazione filologica che permette, proprio mentre la band si rimette all’opera, di recuperare tre dischi coerenti, significativi e che, forse, sono ingiustamente passati un po’ in sordina vent’anni fa.