Customize Consent Preferences

We use cookies to help you navigate efficiently and perform certain functions. You will find detailed information about all cookies under each consent category below.

The cookies that are categorized as "Necessary" are stored on your browser as they are essential for enabling the basic functionalities of the site. ... 

Always Active

Necessary cookies are required to enable the basic features of this site, such as providing secure log-in or adjusting your consent preferences. These cookies do not store any personally identifiable data.

No cookies to display.

Functional cookies help perform certain functionalities like sharing the content of the website on social media platforms, collecting feedback, and other third-party features.

No cookies to display.

Analytical cookies are used to understand how visitors interact with the website. These cookies help provide information on metrics such as the number of visitors, bounce rate, traffic source, etc.

No cookies to display.

Performance cookies are used to understand and analyze the key performance indexes of the website which helps in delivering a better user experience for the visitors.

No cookies to display.

Advertisement cookies are used to provide visitors with customized advertisements based on the pages you visited previously and to analyze the effectiveness of the ad campaigns.

No cookies to display.

NATE WOOLEY, Seven Storey Mountain VI

Sesto volume dell’omonimo song cycle pubblicato dalla Pyroclastic Records di Kris Davis e  registrato da Ron Saint Germain (uno che ha sul taccuino nomi come Bad Brains, Sonic Youth, Ornette Coleman), questo disco del trombettista dell’Oregon di stanza a New York oramai da un ventennio, è un inno, un “e infine uscimmo a riveder le stelle” metaforico e reale, come direbbe Herzog un requiem per un pianeta morente, racchiuso in un’unica, estatica, immaginifica traccia di quarantacinque minuti che vede coinvolti oltre trenta musicisti,  tra i quali citiamo Chris Corsano, Samara Lubelski, C. Spencer Yeh, Ava Mendoza e Julien Desprez. Orizzonti spalancati e nessun confine in un’epoca triste e desolata, in cui un arancione coglione borioso (scrivo il 3 novembre, speriamo bene per stanotte) si vanta di costruirli, i muri: ma basta un soffio, per abbatterli. Una litania dolente e corale sorretta da una bava d’organo, poi ombre in loop, campanelli, orme di piano, tracce preregistrate che interagiscono con la materia viva come la ruggine con un nastro deteriorato, con la stessa sensibilità a sparire di un Basinski. Filosofia della polvere, estasi ed esegesi del dettaglio, la lapsteel di Susan Alcorn (già ammirata con Mary Halvorson) ad aggiungere languore in un progressivo, geologico, inesorabile addensarsi cosmico di materia imprendibile e siderale. Bisognerebbe farne la cronaca minuto per minuto o, come ricordo di aver letto anni fa su una recensione, si dovrebbe smettere di mangiare dopo aver ascoltato questo disco; alla vigilia del nono minuto le nubi si fanno più vicine, si intravede una minaccia all’orizzonte, ma è una minaccia da cui non possiamo, non sappiamo né vogliamo sfuggire: siamo noi stessi quella minaccia e questo suono che ci attrae come una luce attrae la falena viene da dentro. Un canto di sirene elegiaco, terribile e dolcissimo al quale abbandonarsi, anelli di Moebius, figure circolari e immobili come Terry Riley, il phasing di Reich virato in delirio (deliquio) improv, la scienza del quasi, le assonanze, le consonanze, la deriva, la letteratura, le intenzioni, la scrittura, le speranze, tutto si tiene e tutto evapora nei fumi sacri accesi in onore di divinità innominabili in questo cerimoniale di passaggio, tra psichedelia da camera autoptica o da viaggio dantesco e corrispondenza da un altrove disincarnato e possibile. Prima che tutto finisca nello sfacelo, prima che i nomi della merda siano i nomi dei re della televisione, prima che la marea sommerga tutto, prima che sia cenere alla cenere, prima che l’amore che fu sia solo un relitto spiaggiato dove gli uccelli fanno nido, prima resta e resterà la gloria, la gioia fragile, umana e disumana del suono. Poi sarà l’ultimo punto che sempre ci ostiniamo a rimandare, poi sarà finalmente solo eco, solo silenzio.