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NATE WOOLEY, Henry House

Incredibilmente avevamo già parlato di Nate Wooley: è un trombettista, improvvisatore, compositore e scrittore statunitense, che vive a New York dal 2001, dove ha suonato con tutto il mondo o quasi. Quest’anno esce Henry House per Ideologic Organ, un disco dove lui non suona. “Non suona” non significa che Henry House è un disco senza musica (O’Malley sarebbe capace), ma solo che Wooley mette insieme e al suo servizio una squadra di vibrafonisti, trombettisti e pianisti per assemblare col suo collaboratore Ryan Streber e con Randall Dunn un album ambient più spoken word. Con loro disegna il profilo di due uomini incompiuti (Harry e “Happy”), ormai morti: c’è grande sconforto di fondo nel sentire raccontare le vite di due persone che non hanno mai combinato nulla. Interessante il processo creativo che ha portato ai testi: Wooley è partito da un collage di frasi di 4 libri per arrivare ai suoi due racconti, perché – come in un suono sono nascosti altri suoni – in un testo si nascondono altri testi. I tre episodi dedicati ad Henry sono poggiati su drone quasi impalpabili, spirituali, che si muovono in un vuoto bianco inquietante: mi ha colpito soprattutto il primo, per come i vibrafonisti toccano il loro strumento assecondando la natura destrutturata del pezzo, ma anche il suono disteso dei fiati del secondo è stato molto intrigante. I due dedicati al signore soprannominato Happy, con protagonista una voce narrante femminile anziché maschile, sono più matti degli altri: le parti parlate per sottofondo hanno dei semplici field recordings, poi, quando si arriva a mettere un “punto e a capo” al racconto, partono dei vocalizzi sovrapposti di quella stessa voce narrante, roba che intaccherebbe la psiche del più imperturbabile dei monaci buddisti. Sarà che nel frattempo è morto Lynch, ma a momenti ho pensato che Henry e Happy fossero Fred Madison e Pete Dayton di “Lost Highway”, due facce di una stessa medaglia. Probabilmente sbaglio.

Da qualche parte nelle note del disco Wooley ringrazia Streber e Dunn, perché senza di loro nessuno avrebbe potuto vedere “la danza degli armonici”. Un altro che parla spesso di come interagiscono gli armonici è Dylan Carlson, il che ci fa capire che O’Malley non si è spostato dalla sua estetica pubblicando questo disco e che si tratta di un lavoro molto, molto bello per chi ha pazienza.