Nancy Barile: non sono qui per reggerti la giacca!
Nancy Barile, autrice del libro I’m Not Holding Your Coat: My Bruises-and-All Memoir of Punk Rock Rebellion ha un passato come manager di band, organizzatrice di concerti, redattrice di fanzine nella prima scena punk di Philadelphia e un presente da insegnante a Boston. In realtà questa definizione è a dir poco riduttiva, visti i vari premi vinti, i saggi e i corsi per insegnanti da lei tenuti a livello locale e nazionale. Ciò che interessa noi e la storia che andiamo qui a raccontarvi è, però, il ruolo di insegnante e la scoperta fatta da uno studente che navigando in rete si è imbattuto in una sua vecchia foto in abiti punk. Da questo episodio è nata una curiosa concatenazione di eventi che, dalle richieste di racconti in classe ad alcuni articoli di giornale, ha portato Nancy alla decisione di racchiudere quel periodo della sua vita e le molte storie connesse in un libro uscito di recente per Bazillion Points.
Il pregio maggiore del libro di Nancy Barile è l’offrire un punto di vista originale e non scontato sulla nascita del movimento punk negli USA e sulla successiva nascita della scena hardcore per vari motivi che tenterò di riassumere prima di lasciarvi all’intervista. Il primo è, senza dubbio, il luogo in cui si svolge l’azione. Se, infatti, sappiamo ormai praticamente tutto di Washington DC, New York, Boston e le altre capitali della scena hardcore punk statunitense, conosciamo molto meno Philadelphia e il suo contributo alla causa grazie a band interessanti e a locali che al tempo hanno ospitato tutti i nomi rilevanti del giro tra festival e singoli concerti. Una di quelle storie meno conosciute ma, forse proprio per questo, fondamentali per comprendere l’essenza di un linguaggio fondato sull’etica diy e sulla collaborazione tra pochi ragazzi sparsi nei punti nevralgici degli States. Secondo aspetto, Nancy non suonava in una band ma era una delle persone che permettevano alle band di avere un palco su cui suonare e una rete di contatti su cui contare per andare in tour, un punto di osservazione dietro le quinte che esula per una volta dalla solita agiografia e ci permette di completare il quadro di insieme. Infine, perché probabilmente è l’aspetto meno rilevante seppure oggi più che mai attuale, il fatto che Nancy fosse una ragazza in un ambiente in cui le ragazze erano spesso considerate semplici accompagnatrici o mere spettatrici. Come leggerete, probabilmente con sorpresa, sembra proprio che almeno a Philadelphia il maschilismo nella scena fosse un aspetto a dir poco marginale se non ininfluente, visto che Nancy ci racconta di non aver avuto mai particolari problemi a coinvolgere band e locali nei suoi progetti a causa del suo sesso. Del resto, lei non era certo intenzionata a reggere la giacca a nessuno.
Mi piacerebbe cominciare dal momento in cui hai deciso di dare una svolta alla tua passione per la musica così da passare dal ruolo di mera ascoltatrice a un coinvolgimento in prima persona. Ti ricordi cosa ti ha spinto a prendere questa decisione?
Nancy Barile: Dopo essermi trasferita a Philadelphia dalla periferia ho cominciato a fare amicizia con altri punk della zona. Il mio ragazzo di allora aveva messo insieme una band e, visto che mi sarebbe piaciuto contribuire ed essere parte della cosa, sono stata felicissima quando mi hanno chiesto di ricoprire il ruolo di manager. Al tempo, volevamo riuscire a portare la loro musica ad un pubblico di ogni età, cosa che non accadeva spesso, per cui abbiamo cominciato ad organizzare concerti “all ages” (si definivano così quei concerti aperti anche ai minorenni, perché normalmente i live erano riservati a chi aveva compiuto dai 21 anni in su, ovverosia l’età in cui era legale consumare alcolici). Ho anche iniziato a scrivere per la fanzine Savage Pink della mia amica Allison. Come ho già detto, per me era importante contribuire alla scena e, dato che non avevo talenti musicali, ho dovuto cercare una mia nicchia.
Quello che – raccontato così – può apparire come un percorso naturale, non sarà stato privo di ostacoli per una ragazza soprattutto in una società conservatrice come quella americana negli anni Settanta e i primi Ottanta, anche in una scena fuori dai normali canoni come quella punk. Quali sono stati i pregiudizi e gli ostacoli che hai incontrato?
In tutta onestà, non ce ne furono, almeno per quanto riguarda la scena punk. Magari in altre aree della mia vita, ma quando organizzavo concerti o facevo la manager per la band o scrivevo su una fanzine, non ho mai incontrato ostacoli o pregiudizi. Ricordo che una volta un tizio ha scritto una lettera a Savage Pink, credo fosse arrabbiato perché non avevamo scelto la sua band per suonare e si è riferito a me alludendo al mio aspetto fisico. Di certo ha urtato i miei sentimenti, ma questo è quanto. Solo decenni dopo, quando ho cominciato a raccontare storie legate al punk e alla scena hardcore su Facebook ho dovuto affrontare pregiudizi ed ostacoli, come uomini che tentavano di contraddirmi, correggermi o addirittura smentire ciò che dicevo. Ho incontrato uomini nati negli anni Ottanta che cercavano di contraddirmi su eventi legati a concerti cui avevo partecipato. Quando ho postato una foto degli SSD al Irving Plaza, qualcuno ha detto che non era l’Irving Plaza, cosa ovviamente non vera. Un tale ha persino asserito che non potevo essere al concerto cui avevo detto di aver partecipato perché ero una ragazza e le ragazze non andavano a quegli show. Un altro, la settimana scorsa, ha asserito che il mio libro parlava solo dell’essere sposata con mio marito e che mi ha definito una famosa “scenester dudette” (traducibile all’incirca come una “tipa della scena” in senso dispregiativo, ndr), nonostante il libro finisca con il 1982, cioè sette anni prima che sposassi Al (Barile, chitarrista degli SSD, ndr). Per questa persona io posso esistere e la mia storia avere valore solo se può mettermi in relazione con un uomo.
La differenza più evidente tra la scena rock e quella hardcore è rappresentata senza dubbio dall’etica diy, dal poter contare su una rete di amici/contatti per organizzare concerti e far marciare le cose. Questa impronta diy ha ancora un peso nella tua vita personale e professionale?
Come insegnante di una scuola dove la maggior parte degli studenti vive al livello di povertà o anche al di sotto di esso, io uso i metodi propri del diy per ottenere sovvenzioni, libri, gite, relatori, borse studio e altre risorse. La mia etica di lavoro punk è stata davvero molto utile.
Come manager di una band e organizzatrice di concerti sei riuscita a mettere in piedi molti festival, anche con nomi importanti in cartellone e la presenza di varie scene locali riunite nello stesso posto nonostante tensioni e rivalità. Come sei riuscita ad ottenere la fiducia di band e locali?
Be’, non credo che il primo posto da noi utilizzato, l’Elks Center di Philadelphia, ne sapesse molto di punk, semplicemente volevano darci una mano. Un anno dopo il nostro primo concerto, i ragazzi ci hanno guastato però la festa distruggendo i bagni in quel mitico vecchio stabile. Per quanto riguarda il contattare le band, c’era un network di punk molto attivo che attraversava l’intero Paese, ciascuno conosceva gli altri attraverso amici in comune e attraverso telefonate e lettere. In realtà, la scena era così piccola che era facile venire a sapere chi svolgeva un buon lavoro e a chi si poteva dar fiducia.
La tua città era in qualche modo a metà strada tra scene famose come Washington DC e New York, neanche così distante da Boston (almeno per gli standard degli States) dove più tardi ti sei trasferita. Ogni comunità aveva le sue caratteristiche e la sua identità specifica, cosa ci puoi dire di Philadelphia?
Credo che la cosa buona di Philadelphia fosse la sua diversità, nessuna band assomigliava alle altre ma ciascuna aveva un suo suono particolare. Un’altra caratteristica che ho sottolineato spesso era che le band di Philly erano vere, se cantavano di avercela col Mondo, c’era di sicuro una buona ragione per affermarlo. La scena era accogliente e divertente, non giudicava. Soprattutto, dovevi creare un gruppo compatto per fronteggiare le persone del luogo e la polizia. Un aspetto preponderante di Philadelphia al tempo era il suo essere davvero pericolosa, il pericolo permeava ogni cosa che facevamo, quindi i punk di Philly si guardavano le spalle a vicenda. Erano molto leali.
In seguito ti sei trasferita a Boston e sei diventata parte di una differente comunità locale, è stato duro gestire questo cambiamento e la distanza dalla tua famiglia e dai tuoi vecchi amici?
Ero innamorata e vivevo una nuova avventura, ma di certo mi mancavano i miei amici e la mia famiglia, specialmente mia madre. Veniva a trovarmi una o due volte l’anno e io creavo sempre un programma divertente. Io andavo a trovare la mia famiglia a Natale ma non era semplice. Mi sono fatta comunque un sacco di amici fantastici a Boston e questo ha aiutato, anche se gli amici di Philly mi mancavano da morire. È ancora così, vorrei trasferirmi di nuovo a Philly un giorno.
Credi che la mancanza di internet aiutasse le single comunità locali a mantenere le loro identità specifiche? Quali credi siano i pro e i contro della rivoluzione digitale dalla tua prospettiva?
Credo che il fatto di dover fare tutto via lettera o al telefono rendesse la scena molto intima. Era sempre divertente andare al negozio di dischi o ai concerti e trovare ragazzi che ancora non conoscevi. A volte vedevi qualcuno al ristorante, al negozio di dischi o per strada che aveva una spilletta o una scritta sulla giacca che lo identificava come punk e diventavate immediatamente amici. Oggi, però, la scena è molto più vasta ed è più semplice per i ragazzi averci accesso. Ritengo, comunque, che aree e città specifiche manterranno la loro identità nonostante internet o quant’altro.
Spesso, quando si parla con qualcuno a proposito della società attuale e dei giovani è tutto un: “viviamo in tempi pericolosi, ai miei tempi era tutto più sicuro, rispettavamo gli adulti, avevamo regole e principi” e cose simili. Credi sia dovuto all’effetto nostalgia o le cose sono davvero peggiorate?
In realtà era molto più pericoloso prima. Un anno fa ho letto un articolo di Steven Pinker sul Wall Street Journal, riportava come tre decenni fa il tasso di omicidi fosse di 8,5 su centomila, oggi solo del 5,3. Al tempo, l’undici per cento di noi cadeva al di sotto della soglia di povertà, oggi il tre per cento. Nel 1988 sono scoppiate ventitré guerre con un tasso di uccisioni del 3,4 per centomila, oggi ci sono dodici guerre con un tasso di morti dell’1,2 per centomila. Il numero delle armi nucleari è sceso da 60.780 a 10.325. Nel 1988, il mondo aveva quarantacinque democrazie che abbracciavano due miliardi di persone, oggi ce ne sono centotre che coinvolgono 4,1 miliardi di persone. Più della metà delle persone al mondo vive in una democrazia. Nel 1988 si sono verificati quarantasei sversamenti di petrolio, solo cinque nel 2016. Il 37% della popolazione mondiale viveva sotto la soglia di povertà, pressoché incapace di nutrirsi, paragonato al 9.6% di oggi. Nel 1988, le vittime di terrorismo sono state 440, nel 2016, 268. Due secoli fa il dodici per cento della popolazione mondiale era analfabeta, oggi l’ottantacinque per cento sa leggere e scrivere. Trenta anni fa abbiamo riversato 20 milioni di tonnellate di diossido di zolfo e 34.5 milioni di particolato nell’atmosfera, oggi le cifre sono di 4 e 20.6 milioni. Quindi, le cose, almeno sotto questi aspetti, sono migliorate. Sono convinta che i problemi maggiori che oggi dobbiamo affrontare siano legati ai siti di fake news e alle loro fonti non controllate e non verificate. Non sto scherzando, vedo persone con cui sono andata a scuola diffondere le cose più assurde sui social media. Dalla mia posizione, reputo che la cosa più triste per i giovani di oggi sia di non essere sempre “presenti”, vivono attraverso i loro apparecchi elettronici e non si annoiano mai. La noia porta alla creatività, ma se non ti annoi mai che succede?
Da insegnante con un background punk, cosa pensi dei ragazzi di oggi? Credi che dovremmo fidarci di loro e affidargli la possibilità di migliorare il pianeta?
Credo che siamo in buone mani. I ragazzi con cui lavoro mi danno quotidianamente speranza per il futuro. Sono svegli, lavorano duro e sono gentili. Hanno il pensiero critico e la capacità di risolvere problemi. Spero proprio che questi ragazzi possano dire la loro.
Quali sono state le reazioni dei tuoi alunni quando hanno scoperto il tuo lato punk e le tue attività musicali? Credi che questo abbia aiutato a rendere più forte il vostro legame?
Sì, i miei studenti non sono davvero interessanti al punk, credo che solo pochi di loro sappiano cosa sia, penso però gli piaccia l’idea che lo fossi e che fossi un attivista sociale. Gli piace che conosca gente in gamba e, soprattutto, credo apprezzino le mie storie.