NAGA
Dei Naga e del loro nuovo disco HĒN abbiamo già parlato in sede di recensione come di una delle sorprese dell’anno, spingendoci a definirli una delle realtà più personali e convincenti tra le molte che si muovono ai confini tra doom e postcore. I motivi sono molteplici, a partire dalla voglia di tenersi a distanza dai soliti cliché (anche grafici), per arrivare alla deriva sperimentale che serpeggia sotto la superficie, il tutto a servizio di un mix che spicca per la capacità di bilanciare i singoli elementi senza indebolirne le caratteristiche e l’impatto. Per questo abbiamo deciso di scambiare quattro chiacchiere con Emanuele (basso) e Lorenzo (chitarra), anche in previsione della data che terranno al Glue-Lab in occasione della festa di riapertura del circolo dopo la pausa estiva.
Cominciamo con il presentare la band ai nostri lettori, come vi siete conosciuti e come è nata l’idea dei Naga?
Emanuele Schember (basso): Ciao Michele e grazie in primo luogo. I Naga nascono da una complessità di elementi e necessità, a partire dal fatto che io e Lorenzo ci conosciamo da più di dieci anni e abbiamo iniziato a suonare insieme da allora, più o meno, e dall’incontro con Dario, prima come amico quasi dieci anni fa, e poi come batterista. I Naga racchiudono tutte le esperienze, i concerti e i dischi che abbiamo vissuto e ascoltato negli ultimi anni.
Sia il nome, sia l’artwork colpiscono per originalità ed esulano dai soliti stereotipi ai quali è avvezzo chi si nutre di queste sonorità. Come sono nati?
Emanuele: A partire dal fatto che HĒN, in greco antico, significa “uno”, l’artwork ne racchiude un’interpretazione numerologica. Nella copertina, in primo piano, sono incrociate per tre volte tre sequenze di triangoli; il ricorrere continuo del numero tre (aggiungendo che siamo una band composta da tre elementi), associato alla figura geometrica del triangolo, è in vari culti, filosofie religioni il simbolo di perfezione e di unità.
Lorenzo De Stefano (voce, chitarra): Comunque in generale non intendiamo richiamare alcuna iconografia direttamente cristiana, ma la Tetraktis pitagorica o le dottrine occulte di matrice neoplatonica e stoica.
L’arma vincente di HĒN è la capacità di unire insieme doom, postcore e una spiccata deriva sperimentale in modo identificabile, soprattutto per come i vari elementi sono bilanciati. Cosa entra nel vostro menù sia come ascoltatori, sia come musicisti?
Emanuele: Ti ringraziamo. Sembra banale dirlo, ma fondamentalmente siamo ciò che ascoltiamo. Sia io, sia Lorenzo e Dario, negli anni abbiamo ascoltato una miriade di gruppi e generi diversi. Alcune band possono piacere a me, ma non a Dario, o magari a Lorenzo, ma in un modo o in un altro ne siamo comunque influenzati. Non so se siamo in grado di fare una lista, ma se parti dai Black Sabbath, dai Beatles, dai Led Zeppelin e arrivi a Darkthrone, Dissection, Eyehategod e Neurosis, non ti puoi sbagliare. Per non parlare di uscite recenti, dai Bast ai Conan, dagli High On Fire ai Pallbearer. Tutti gruppi validissimi che guardiamo con una certa attenzione.
HĒN, oltre a colpire per la musica, ha dalla sua un immaginario decisamente evocativo che, se non erro, prende il via dall’antica Grecia e dall’idea di un principio a tutto che sia al tempo stesso il punto di arrivo, l’alfa e omega. Da cosa nasce questo interesse? Vi va di parlarci un po’ dell’aspetto non musicale del disco?
Lorenzo: In generale sono molto affascinato dalle antiche filosofie dei presocratici, da antichi culti atavici e dalla filosofia tedesca, penso che tutte queste suggestioni si sposino perfettamente con la nostra musica, anche se il simbolo, la suggestione è solo una scintilla magari per esprimere in maniera metaforica qualcosa che si ha dentro e che possa assurgere a un senso universale. L’ispirazione principale viene dalla condizione umana, dalla vita e da tutte le sue varie sfaccettature, dal dolore e dall’oscurità che avvolgono l’esistente e l’esistenza, ma che spesso sono, possono essere, preludio a una più grande salute. In generale HĒN non è un “concept”, anche se effettivamente il tema dell’eterna ricorrenza, dell’unità nel caos o appunto, come dicevi, l’idea di un’alfa e omega come opposte polarità che reggono però l’intera realtà è sottesa ad ogni singolo brano.
Da dove viene il campione posto all’inizio di “Hierophania”? In che modo si lega al vostro immaginario e all’album?
Emanuele: L’intro di “Hierophania” è tratto da un film di Monicelli del ’76, “Un borghese piccolo piccolo”, l’interpretazione è quella di Renato Scarpa. La Ierofania (in italiano) è, in generale, la manifestazione del sacro e le parole apocalittiche pronunciate dal prete, in quello spezzone, ci sembravano perfettamente in linea con quello che avevamo in mente.
Il tutto è stato affidato in fase finale a James Plotkin, che si è occupato del mastering. Cosa vi ha spinto ad affidarvi alle sue cure? Credete che si possa far rientrare quanto fatto da lui come musicista (penso nello specifico ai Khanate) nel novero delle vostre influenze?
Emanuele: Ci fu suggerito da Michele (uno dei tre soci della Fallo Dischi) e in contemporanea dalla Lay Bare Recordings, poiché anche tutti i lavori (o quasi) che escono per la Burning World Records sono masterizzati da James Plotkin. Poi ovviamente la sua fama lo precede, ci sentivamo particolarmente tranquilli ad affidare il mastering a un personaggio di esperienza e di “genere” come lui, oltre al fatto che si è dimostrato una persona estremamente disponibile e piacevole. Per rispondere alla tua domanda, non so se realmente i Khanate o Plotkin possano essere ritenuti influenze dirette per noi, sicuramente il primo disco omonimo e Things Viral li abbiamo ascoltati un po’ tutti, quindi magari hanno genericamente contribuito come tante altre cose.
Come vi muovete per riprodurre in sede live la complessità e ricchezza di suoni dell’album? Preferite attenervi alla sua forma in studio o lasciate spazio a mutazioni/stravolgimenti?
Emanuele: Cerchiamo di essere da un lato fedeli, anche perché in studio abbiamo fatto in modo da registrare le cose in funzione dei live, e dall’altro cerchiamo di stordirci (e quindi eventualmente stordire), ma letteralmente intendo. Puntiamo sempre ai volumi più alti possibile, le code dei pezzi spesso le improvvisiamo, ma anche in questo caso, live dopo live, quelle parti finali che lasciavamo scorrere autonomamente verso la fine hanno iniziato ad avere una loro forma prestabilita.
Tra l’altro, se non erro, avete già qualche data in programma per settembre, vi va di darci qualche anticipazione sulle vostre prossime uscite?
Emanuele: Sì, in realtà siamo appena tornati dal Watchtower Festival, dove abbiamo condiviso il palco con Napalm Death, Church Of Misery, The Secret e Shores Of Null, è stato grandioso e allo stesso tempo devastante, ora staremo fermi per un paio di settimane. Il 31 agosto suoneremo a Parma al Navajo Calling Fest, con un sacco di belle band italiane. Il 6 settembre saremo ad Ancona al Glue-Lab, e mi pare di capire che sarà un’altra situazione davvero bella. E a fine settembre saremo a Roma. Abbiamo altre date ancora in programma, che aggiorneremo man mano, quindi – qualora ci fosse qualche interessato – può dare un’occhiata alla nostra pagina su Facebook e seguire gli spostamenti.
Avete già in mente come muovervi per il prossimo lavoro in studio, avete già buttato giù qualche idea o preferite per ora concentrarvi sulla promozione di HĒN e godervi i molti feedback positivi che sta raccogliendo?
Emanuele: In realtà, molto lentamente, abbiamo iniziato a mettere su idee nuove. Forse per la fine dell’anno registreremo qualcosa. Per il momento non possiamo essere certi di nulla, poiché le cose sono in costante e lenta evoluzione, e siamo contenti di questo. Siamo soddisfatti anche del riscontro che sta avendo il disco, ovviamente.
Grazie mille del vostro tempo, lascio a voi le conclusioni…
Emanuele: Ti ringraziamo moltissimo per lo spazio che ci hai dedicato e per la recensione. Il disco è completamente ascoltabile dal nostro Bandcamp e la pagina su Facebook è continuamente aggiornata. Ci becchiamo in giro.