Nace, Wiese & Spunt: due dischi Drag City
Assieme a Lasse Marhaug, John Wiese è uno dei noiser più presenzialisti e attivi sulla scena da almeno un ventennio a questa parte. Una miriade di uscite, collaborazioni estemporanee e gruppi paralleli di grande longevità, come il duo/trio (la formazione è stata più volte allargata e ristretta) Sissy Spacek, una via di mezzo tra lo spastic grind un tempo dispensato da etichette come la Slap a Ham e le allucinazioni persecutorie ma a loro modo giocose di alcuni giappi (Pain Jerk, Merzbow prima che passasse al laptop). L’anno scorso, per dire, hanno messo fuori una cosa come quattro album (tre per l’etichetta personale di Wiese, la Helicopter, e uno per l’italiana Second Sleep) e ciò non può non farci pensare a quanto sia rimasto immune tale giro dal processo di delegittimazione del supporto fisico operato della rete. Se si documenta così tanto, per esigue che siano le tirature, significa che gli aficionados del genere sono ancora disposti a pagare per aver qualcosa da rigirarsi tra le mani. Dicevamo, non c’è etichetta del giro noise che conta che non abbia in catalogo un disco dell’artista losangelino (Troniks, Misanthropic Agenda, Load, Ultra Eczema…) e non c’è nulla di più disorientante nel voler iniziare ad esplorare una discografia simile. Se vi va di provare, questa è la coppia di dischi, a mio modo di vedere le cose, che potrebbe darvi un’idea delle grammatiche combinatorie che incontriamo spesso nei suoi lavori. Il primo è un mini, Arrhythmia Wave Burst And Panner Crash del 2005, che in poco più di venti minuti condensa un distillato perfetto del noise punitivo e con la forza della maturità: rapide sequenze di sventagliate tra capo e collo nello stile vortice acidtroincs (con tanto di sbarramenti di rumore che fanno vibrare i coni delle casse come se stesse passando una mandria di bufali), parti più ulcerate, discontinuità e più in generale una tendenza a titillare il dispositivo equilibrio-disequilibrio con piglio sadico e minuzioso. Il secondo invece è un disco per la PAN, Seven Of Wands del 2011, che aggiorna i linguaggi della musica concreta/para-elettronica creando un susseguirsi di climax ondulati dove i suoni sembrano deformarsi all’incontro con vampe di calore.
Il disco che ci presenta oggi Drag City, frutto della collaborazione di Wiese con l’amico di vecchia data dei No Age Dean Spunt, ha invece un sapore diverso rispetto ai due di cui vi ho appena parlato.
Anche se la materia prima la mette Spunt dietro la batteria, “la mano” di Wiese nelle rielaborazioni/scelte resta inconfondibile. Anzi, a me pare più lavoro suo che del compare. Comunque sia: i pezzi sono due, uno per lato (furbetti quelli dell’etichetta a spacciarlo come un lp, quando in realtà è un mini che gira a 45), e puntano entrambi in direzione impro-percussiva-rimbrottante, smontando e rimontando di continuo sequenze di suono alla maniera delle suite di musica concreta. C’è grande attenzione al gioco dei pieni e vuoti subitanei, a scarica, e ai suonini di corredo che sbavano filamentosi come puntini di sospensione, una maniera di suggerire qualcosa che potrebbe continuare, svilupparsi, e che invece nasce e muore lì. Ogni tanto sembra pure esserci il fantasma dei Bark! (spinte impro-funk disossate) ma è tutto così mutevole e mutante che è facile passino inosservate o meglio cancellate da troppa enfasi istintivo-liberatoria. Non un disco brutto ma minore sì.
Al contrario non lascia dubbi sulla bontà il lavoro in solo di Bill Nace, da qualche anno sodale di Kim Gordon nei Body/Head e con una carriera di tutto rispetto nei reami del noise americano (ha pure una bellissima etichetta, la Open Mouth, di cui un tempo Keenan dava notizia recensendo/promuovendo i dischi sul suo mailorder Volcanic Tongue). In Trough A Room Nace ricerca costantemente l’essenzialità, evocando spazi di presenze dimesse e rade. Con la sua chitarra (e un altro paio di strumenti riportati nei credits del disco) ci accompagna nel profondo senza preamboli, producendo dei suoni dronanti e spolpati che si posano come un manto. Giusto delle serpentine di loop minime attaccate con lo sputo, ma nulla che “abbellisca”. L’atmosfera è come incapsulata in una vibrazione che rimanda a certa elettroacustica su fondo melmoso e sospeso (Philip Jeck, i Bellows di Handcut) o a dei Royal Trux notturni e senili, imbambolati a suonare un singolo accordo per ore, senza più droga in corpo ma con i soli fantasmi del subconscio che palpitano. Non ci sono effetti speciali, scure atmosfere che giganteggiano sopra la testa o chissà che progressioni e cambiamenti. C’è solo un’esistenza che registra la vita in corso, né bella né brutta, ma con i suoi momenti irripetibili e il suo farsi e disfarsi continuo, a dispetto di tutto. Per chi scrive: disco dell’anno appena trascorso.