MUZZ, Muzz

L’esordio omonimo dei Muzz, fuori a giugno via Matador, non poteva di primo acchito non innescare qualche ritrosia: l’ennesimo supergruppo, l’ennesimo progetto parallelo per combattere le rispettive routine… Ma, beh, sarebbe sbagliato inquadrarlo così. Trattasi in realtà di una naturale rimpatriata fra vecchi amici, già sporadici collaboratori, che ipotizzavano un’avventura in combutta addirittura dal 1994, avviata in pratica nel 2015, di session in session. Il “nuovo” trio newyorkese, che si spartisce in armonica democrazia musica e parole, è allora composto da Paul Banks degli Interpol (nel corso degli anni cimentatosi in sortite solistiche prima con il moniker Julian Plenti e poi a semplice firma Banks), Josh Kaufman (multistrumentista nei Bonny Light Horseman assieme ad Anaïs Mitchell e produttore per Josh Ritter, The National, The War On Drugs, The Hold Steady… con Paul sono amici inseparabili dai tempi del liceo) e Matt Barrick, batterista di Jonathan Fire*Eater e The Walkmen, oltre che turnista per i Fleet Foxes.

We all just need a little kindness e subito l’iniziale “Bad Feeling” traccia le coordinate di un songwriting alt-rock sostanzialmente classico e crepuscolare, capace di flirtare con il folk, il blues cosmico e il jazz, ispirato tra gli altri a Leonard Cohen, Bob Dylan e Neil Young, sfumato dall’elettrico all’acustico, che parla tramite un’eco analogica e procede sospinto dalla malinconia delle memorie e dalla necessità di un sollievo che possa alleviarle (“Evergreen”), dalle domande rivolte alla polvere (“Red Western Sky”), dall’osservazione dei cieli mentali  (“Everything Like It Used To Be”) e dagli aromi del sogno (“Patchouli”). L’operazione è condotta con eleganza, tra buoni ritornelli ottimamente resi dalla voce baritonale di Banks – dalle delicatezze di “Broken Tambourine” ai rimandi new new wave di “How Many Days” – e grande cura negli arrangiamenti, che possono contare su una certa ricchezza strumentale (i tasti, gli archi di Rob Moose, i legni, gli ottoni affidati ai The Westerlies), senza andare mai a discapito di un pacato senso della misura, da non tradursi in maniera bensì in essenziale rigore formale alla larga dai fuori d’artificio a rapida presa. Fra la dozzina di canzoni in scaletta, si impongono probabilmente i rollercoaster ritmici di “Knuckleduster”. È ad ogni modo tutta una fusione di note e colori caldi. Ed è un (bel) finale alternativo all’inestricabile trama dei ricordi.

Tracklist

01. Bad Feeling
02. Evergreen
03. Red Western Sky
04. Patchouli
05. Everything Like It Used To Be
06. Broken Tambourine
07. Knuckleduster
08. Chubby Checker
09. How Many Days
10. Summer Love
11. All Is Dead To Me
12. Trinidad