MUSK OX, Woodfall
Il lento e costante fluire delle stagioni incide solchi profondi nella carne degli uomini. Le emozioni divengono cinismo, la poesia si tramuta dolorosamente in una prosa grezza, atta a descrivere e non più a narrare. La malinconia giovanile è sostituita da una sensazione di morte imminente, di fine, quasi che sia proprio il chiudere le palpebre per l’ultima volta a dare significato all’attesa precedente.
I canadesi Musk Ox, il cui pastore Nathanael Larochette è salito silenziosamente alla ribalta underground registrando i tre interludi di chitarra classica presenti in The Serpent And The Sphere degli statunitensi Agalloch, provano delicatamente a rallentare lo scorrere impetuoso del tempo quotidiano, rispondendo con rincorse strazianti dell’archetto all’impossibilità di conservare intatta la sorpresa dell’infanzia.
Fin dall’esordio maestoso con “Earthrise”, nella quale il delicato arpeggio si riverbera su muscolari pennellate neoclassiche, il quartetto indossa la maschera dell’espressività romantica, bucolica, a tal punto sentita nell’animo da richiamare velleità titaniche. Il pentagramma è, ancora una volta, una tela intonsa e ognuno, guidato dall’imprevedibilità bizzosa di “Windswept”, apporta il suo preziosissimo contributo in termini – prima che di tecnica, qui nemmeno da analizzare – di pura passione. La ricerca spasmodica di un ambiente piuttosto che di una linearità, quindi l’operare orizzontalmente, presentando all’ascoltatore e non imponendo, contraddistingue la natura cinematica dell’album, vergato dai rivoli cremisi delle sciabolate del violoncello, contrappunto, in “Above The Clouds” ad esempio, del violino, a instaurare un dialogo fatto di aperture melodiche di straordinaria bellezza ed estatiche pugnalate drone-folk, a ribadire la doppiezza dell’elemento musicale nei Musk Ox, da un lato ensemble votato alle radici della sintassi compositiva, dall’altro iconoclastica rappresentazione della radicale violenza ed impassibilità del paesaggio esterno (o intimo). I sussulti, sospiri nella quiete degli accordi timidi di Nathanael, rompono un’armonia solo apparentemente statica, nonostante la limitata paletta sonoro-cromatica adottata in quest’uscita dai nordamericani, in contrapposizione, se vogliamo, al minimalismo massimalista di formazioni simili come i Tenhi (altrettanto però dotati di perizia nell’arte della scrittura).
La stasi, tuttavia, ritorna nell’ultimo episodio, sotto le spoglie di un dolce inno pastorale, che, nella sua caratterizzazione pacata, accarezza i territori metafisici lambiti dagli Earth di Hex: Or Printing In The Infernal Method, ripetendo – interiorizzandola – la stessa fotografia sbiadita degli eventi tragicamente passati, trasmessi ai posteri in un numero esiguo di sezioni, ora attraverso triadi maggiori, ora velocizzando l’andatura, infine tessendo ragnatele eteree di armonici naturali ed archetti che sembrano avere la consistenza del vento.
In conclusione, in Woodfall si assiste a un rituale, una cerimonia di nascita, declino, resurrezione, eternità, con uno sguardo dapprima rapito; poi, impercettibilmente, ci si riscopre parte stessa della sciamanica celebrazione, cullati e conquistati dal canto ancestrale ed atavico dei Musk Ox.