Musiche ascoltate raramente, a Napoli – Intervista a La Digestion
Questo sabato c’è il terzo appuntamento della seconda stagione de “La Digestion – Musica ascoltata raramente”. Nella sede di Casa Morra, nel rione Materdei, si esibiranno il giapponese Otomo Yoshihide e Elio Martusciello. Prima di loro ci sarà un incontro-conversazione con lo studioso Carlo Serra. Abbiamo chiesto ai ragazzi di Phonurgia, l’associazione culturale che ha curato il programma del festival, di raccontarci di quest’esperienza, che si concluderà a giugno. Per tutti loro risponde Giulio Nocera, che ringraziamo.
La Digestion è alla seconda stagione di concerti. Come nasce, chi ne fa parte e quali sono gli obiettivi principali che vi siete posti.
Giulio Nocera: Prova a pensare alla nascita di un’erba spontanea, più nello specifico a quel fenomeno di accanita resistenza che certe piante esercitano nei confronti delle costruzioni urbane, dei manti cementosi, delle edificazioni. Basta guardarsi intorno per davvero e si scoprirà che queste erbe resilienti e partigiane sono praticamente ovunque; La Digestion nasce più o meno a questo modo, è il tentativo di nominare e favorire una serie di movimenti che erano già in corso all’interno della città di Napoli, è il tentativo di guardare alla città di Napoli come ad un grande animale, una grande creatura, benevola ma anche insidiosa, capace di accogliere, masticare e sputare fuori. La Digestion è poi anche l’idea di un metodo di ascolto, di un’attitudine alla cultura (e anche all’organizzazione della cultura) che necessita coinvolgimento assoluto, sudore viscerale, presenza incondizionata. Solo così, crediamo, ciò che viene acquisito può arricchire la persona e non scivolare via poche ore dopo.
Il nucleo primo de La Digestion è composto da me, Mimmo Napolitano (SEC_), Renato Grieco (KNN) e Andrea Bolognino; come vedi siamo un gruppo composto da musicisti e artisti, questo perché La Digestion è anche il risultato di un bisogno personale, creare per noi stessi gli spazi e le opportunità che le istituzioni (politiche e culturali) non vogliono o non sanno creare (spesso infatti siamo di fronte a scarsa conoscenza più che a scarsa volontà). Quest’anno il Comune di Napoli ci ha riconosciuto il patrocinio morale e l’Assessorato ai Giovani e quello alla Cultura ci hanno sostenuto con un importante supporto logistico; ne siamo felici ma non basta, è necessario che la nostra città si costituisca come un punto di riferimento assoluto per la musica, il teatro, le arti visive, la danza, la performance, la ricerca estetica.
Questo è forse l’obiettivo più importante che abbiamo di fronte, mettere a punto un dispositivo sempre più articolato e polimorfo, un festival che guardi a tutte le discipline della rappresentazione e che produca una continua riflessione attorno al ruolo dell’arte nella nostra società.
Mi colpisce quel sottotitolo, “musica ascoltata raramente”. Può significare molte cose: che si ascolta di rado, che è un tipo di musica difficile, che è destinata a un pubblico poco numeroso, di nicchia, ma so che l’intento in realtà è l’esatto opposto. Provate a descrivere il perché di questo bisogno di sottolineare quell’aspetto.
La rarità è quella dello sguardo ma anche del fenomeno. Una particolare sfumatura nella luce del crepuscolo è un evento raro ma possibile, perché quella luce venga colta c’è bisogno però che il nostro sguardo sia disponibile, attento. Ecco di cosa parliamo quando utilizziamo l’aggettivo “raro”; la proposta che facciamo ha qualcosa a che fare con l’osservazione degli uccelli, chiede un certo passo, l’investimento di un tempo, una particolare disponibilità all’attesa, persino una pazienza direi. La musica degli artisti che invitiamo è ascoltata raramente perché sceglie di incontrare ascoltatori che decidono di compromettersi, ma è anche certamente di rara bellezza, ed è rara anche perché frutto di ricerche ai confini del concetto di musicalità.
Rari momenti di incontro tra rari suoni e rari occhi. Sì, bisogna pur dirlo una volta e per tutte: la cultura non è per tutti ed è bene che non lo sia; la cultura non è un intrattenimento gradevole ma una cosa seria che ci chiama ad un incontro-scontro prima di tutto con noi stessi. Non ci interessa costruire un pubblico di nicchia, ma nemmeno perseguire il falso mito di una cultura diffusa a tutti i costi sul modello Nord-europeo.
Il nostro festival è aperto a tutti, accade dentro la città di Napoli, e noi siamo alla continua ricerca di nuove energie, ma la strada per l’incontro non è priva di ostacoli, non basterà entrare in un locale del centro all’ora dell’aperitivo e gettare un occhio distratto a qualche opera.
Come scegliete gli artisti che fate esibire? Mi pare di capire che rimane essenziale anche l’interazione tra quelli stranieri, o di altre città, con quelli strettamente campani. Cosa pensate possano aggiungere questi ultimi nell’idea generale del programma?
Come avrai già capito, attribuiamo un valore centrale alla città dove questo festival si realizza. Non potremmo fare lo stesso lavoro a Berlino, né a Palermo. Napoli ci chiede di immaginare continuamente modi nuovi, ci chiede di disarticolare il pensiero più immediato e cercare strade più tortuose, più difficili, ma che regaleranno straordinarie sorprese. Se ci pensi è la città stessa ad avere questa caratteristica. A Napoli, spesso, le strade scelte sono le più lunghe, il principio dell’ottimizzazione cede il passo a una necessità di bellezza. Dico necessità e non intenzione perché ci tengo ad assumere anche una posizione critica; è fuori discussione che il popolo napoletano abbia una tensione naturale alla bellezza ma è altrettanto vero che questa tensione da sola non basta, è necessario assumere su di sé la responsabilità di questa bellezza e perseguirla con coscienza e senza leggerezza. È qui, forse, che c’è da migliorare. I musicisti napoletani sono quelli che accedono a questo spazio di diritto, La Digestion è prima di tutto un luogo che abbiamo pensato per loro, per noi, e chiaramente per l’incontro. Così è naturale per noi invitare qui a Napoli musicisti da tutto il mondo, chieder loro di confrontarsi con questa città, con le sue proposte, con i suoi toni.
Mi sembra di vitale importanza la relazione con la Fondazione Morra. Non credo di dire una sciocchezza se sottolineo che era logico che una realtà artistica prestigiosa, come quella della famiglia Morra, legata a doppio filo alle opere di Hermann Nitsch, si dovesse incontrare con un gruppo di musicisti e compositori come il vostro (Renato Grieco, Mimmo Napolitano, Giulio Nocera, Andrea Bolognino).
È vero, l’incontro è stato naturale. Ho sentito il bisogno di scrivere a Raffaella Morra tanti anni fa, ancora non conoscevo Mimmo, Renato, Andrea. Le scrissi insieme ad un’amica (Theo Drebbel, ora affermatasi come artista di grande interesse, vi consiglio di seguire il suo lavoro) perché ebbi la sensazione che lei, la EM-Arts, la Fondazione, potessero essere i naturali destinatari di un grido di protesta, che all’epoca sentivo necessario, nei confronti del modo in cui le cose si stavano configurando nel mondo dell’arte napoletano. Raffaella rispose subito, ci invitò al Museo Nitsch, ci ascoltò e discusse con noi. Alcuni anni dopo è accaduto lo stesso in occasione del concerto di Kevin Drumm; è fondamentale ricordare che la Fondazione Morra nella persona di Teresa Carnevale e Peppe Morra ed EM-Arts nella persona di Raffaella Morra, non si sono tirati indietro quando gli abbiamo detto che avevamo un’idea e che per realizzarla avremmo avuto bisogno di aiuto. Con loro il confronto è continuo e acceso, problematico e appassionante.
Altro discorso che ritengo importante. Stiamo parlando di un’iniziativa che si tiene in una città davvero particolare, che ha dato i natali a tanta musica popolare, colta, d’avanguardia, ma che secondo me – e per vari motivi che non sto qui a scomodare, il discorso sarebbe lungo – non riceve la meritata attenzione da parte di alcuni media. Magari a voi il discorso interessa poco, ma io la penso così. Voi come la pensate invece?
Tocchi un argomento importante. Che dire? La stampa oggi sembra non interessarsi veramente alle cose, piuttosto alla loro apparenza di superficie. Un certo evento finisce in prima pagina se ha determinate caratteristiche, non importano davvero i contenuti. Importa l’internazionalità, i numeri, l’attrattiva. È chiaro che i media sono fondamentali per informare le persone, ma fino a che punto? Spesso ci ritroviamo di fronte a delle semplificazioni davvero spaventose. Tradotto in linguaggio giornalistico, qualsiasi nome del nostro programma si potrebbe ridurre a qualche titolo del tipo “se i rumori diventano musica” o qualcosa del genere. Ci interessa davvero questo? Mi rivolgo a te con delle domande perché questo è uno dei grandi temi di discussione delle nostre ultime riunioni, e una delle questioni che ci proponiamo di affrontare.
Napoli, in generale, sta ricevendo più attenzione dai media. Ma anche lì ad emergere è solo la superficie. Quello che però meriterebbe davvero attenzione in questa città sono i cunicoli profondi, la Napoli di sotto, quello che sta dentro ai buchi del tufo. Purtroppo i media arrivano sempre in ritardo, quando ormai le cose sono già autonome e capaci di camminare sulle proprie gambe.
Ne approfitto per fare un appello ai giornalisti della nostra città: c’è ancora qualcuno disposto a scommettere su una realtà emergente e ad istituire con questa un rapporto di scambio e dialogo?
Com’è stata la risposta del pubblico e cosa vi aspettate dalle prossime esibizioni? Ricordo che stanno per passare da voi Otomo Yoshihide, affiancato da Elio Martuscello, poi Rie Nakajima, David Toop, Thomas Köner, Florian Hecker, Argenziano-Lami-Malatesta. Insomma, siamo quasi dalle parti del Cafe OTO di Londra. E non ho citato i nomi che sono stati da voi in passato…
Ti ringraziamo per il paragone con il Cafe OTO, è un luogo a cui abbiamo sempre guardato con ammirazione; lì abbiamo fatto concerti per noi cruciali e ascoltato musicisti leggendari.
Il pubblico risponde bene, è evidente il desiderio di una proposta del genere. Come già detto però l’equilibrio è delicato. Al concerto di William Basisnski c’erano quasi cinquecento persone, ma troppe di queste erano purtroppo interessate all’evento e non all’incontro. Due giorni dopo, invece, al concerto di Francisco Meirino (di certo meno noto di Basinski) c’erano duecento persone, e quasi tutte erano lì con una attitudine di rara disponibilità. C’è bisogno di negoziare tra numeri (che sono importanti) e qualità del pubblico. È anche per questo che cerchiamo di instaurare con il nostro pubblico un rapporto diretto, continuativo, che travalichi il semplice momento della performance e si esprima anche in momenti di dialogo, conversazione e riflessione teorica. È anche per questo che abbiamo inaugurato una radio.
Un nome secco. Il compositore e/o gruppo che vorreste ascoltare-vedere in azione nella prossima edizione.
Battles? Rimini Protokol? Nigel North? Jim O’Rourke? Giorgio Agamben? Michel Chion?Come vedi più che un nome ci teniamo a far passare un’idea secca: La Digestion è un organismo in mutazione, pronto ad aprirsi a nuovi incontri.