MURCOF, The Alias Sessions
C’è qualcosa di squisitamente umano nella volontà di tornare nel proprio luogo d’origine alla fine di un viaggio o dopo esperienze segnanti, e certo non si può dire che Murcof dagli inizi del Duemila non ne abbia fatte. Al contrario, l’artista messicano ha realizzato colonne sonore e musica strumentale finendo per spostarsi in Europa ed intessere importanti collaborazioni con artisti del calibro di Philippe Petit ed Erik Truffaz. Al contempo, la condizione di crisi globale che ci ha investiti nell’ultimo anno e mezzo rappresenta uno di quegli avvenimenti in grado di calare nuovamente il singolo nel corso della storia e permettergli così di tirare le somme, analizzare un percorso e fare i conti con la persona che era e il posto da cui veniva rispetto a ciò che è oggi e dove si trova. Analizzato da questo punto di vista, il ritorno a casa di Murcof, su Leaf, la sua prima e storica etichetta, con un suo lp da solista dopo ben tredici anni, assume toni decisamente epici. Quest’intensità emotiva si riflette subito anche nelle caratteristiche formali di questo disco: un doppio, della durata totale di un’ora e mezza, grosso, monumentale e onnicomprensivo delle capacità tecniche ed estetiche di questo artista.
The Alias Sessions riesce a incorporare in un’architettura chiara e precisa tutti gli elementi più caratteristici delle produzioni di Murcof, a cominciare da un livello estremo di meticolosità nella scultura del suono, passando per la ricchissima gamma di atmosfere a cui ci ha abituato, alternando oscurità spettrali, ritmiche telluriche scomposte e attimi di diafana ed impalpabile leggerezza. È chiaro che un approccio di questo tipo può presentare delle criticità, rischiando di produrre una sorta di antologia di sé o un mausoleo della propria arte (rischio che per altro non posso dire sia stato completamente evitato), tuttavia Murcof riesce a non abbandonarsi troppo all’autocelebrazione, ma compie qualche passo in avanti rispetto a dove ci aveva lasciati, dimostrando come il suo percorso non sia stato solo in direzione ascensionale, ma anche verso la sua più intima profondità. Infatti, queste Sessions presentano un livello di astrazione inedito che elude le solite griglie ritmiche, flettendosi verso necessità più organiche ed entrando in sintonia con altri paradigmi di movimento. Una delle ragioni possibili di questo cambio di rotta è sicuramente la finalità dell’opera, inizialmente concepita come colonna sonora per una performance di Alias, compagnia di danza contemporanea di base in Svizzera. Al di là delle congetture, il risultato è un lavoro più saggio, più adulto e meno iscrivibile a generi e tendenze troppo codificate.
In ultima analisi, l’ascolto di questo disco si è rivelato piacevole e leggero nonostante la sua lunga durata. Qui l’elevatissimo livello di dettaglio non permette di distrarsi ma al contempo non sovraccarica nessuno di informazioni. La cura del suono è totale, cosa che convincerà gli audiofili più accaniti e gli ormai cresciuti amanti di quel suono pulito e cristallino del Duemila, ma la consapevolezza di trovarmi di fronte ad un’opera concepita non solo per l’orecchio giustifica quel senso di mancanza, di “fuori fuoco” significativo che ho provato sentendola.