MUDHONEY, Plastic Eternity
Questa recensione non serve a niente. Perché potrei parlare bene o male di questo nuovo disco dei Mudhoney, ma le sorti delle loro vendite, del loro status bancario e dei loro tour non cambieranno. Non sono così presuntuoso da ritenermi influente fino a questo punto: in ogni caso avrei dovuto scrivere che nessuna recensione di un disco dei Mudhoney serve a niente, manco quelle scritte da Pitchfork o da Rolling Stone. Perché? È presto detto: il loro disco più venduto è l’ep Superfuzz Bigmuff, uscito 35 anni fa su Sub Pop. Gli appassionati lo comprano perché è in qualche lista fra gli album fondamentali, ha un titolo figo, una copertina che fa tanto grunge (infatti la foto è ad opera di Charles Peterson, che sono 35 anni che campa con mostre a tema, giustamente). Insomma: sta bene in collezione. Probabilmente pochi si sono accorti che dentro non c’è “Touch Me, I’m Sick” (aggiunta nella ristampa in cd perché scemi sì ma non così tanto) perché i dischi si impilano, mica si ascoltano. Soprattutto quelli registrati con il culo (culo prestigiosissimo di Jack Endino, uno che le scorregge le ha sempre sapute microfonare bene).
Volete farmi credere che siete fra le poche migliaia di persone che hanno adorato anche Mudhoney, Every Good Boy Deserve Fudges, Piece Of Cake, My Brother The Cow, Tomorrow Hit Today, tanto da andare dal negozio di dischi vicino casa e dire “voglio il nuovo dei Mudhoney”? Sappiate che i Mudhoney – padrini del grunge, ispiratori di Kurt Cobain, eredi del sound heavy dei Blue Cheer, Stooges sotto forma di nerd – vendono a malapena quindicimila dischi ad ogni uscita. Delle limited edition naturali. Per loro la crisi discografica c’è sempre stata. Persino nei mitici anni Novanta, quando anche i più stronzi vendevano un milione di copie, loro non arrivavano alle cinquantamila. Ecco perché questa recensione non serve a niente: perché, cristoddio, non vi abbandonerete al piacere neanche questa volta. Andrete su Spotify, scriverete “Mudhoney” ma poi metterete su gli Idles o i Fontaines DC. Che ci sta, eh: ma uscite dal loop! Provate il gusto di mettere sul piatto un disco rock che suona come dovrebbe suonare un disco rock. Con riff energici ma non tamarri, con ritornelli anthemici ma non banali, con testi stupidi ma intelligenti, con assoli stonati e frastornanti, tempi andanti ma non testardamente veloci. Se dal 1989 (o dall’anno in cui li avete scoperti) la vostra tradizione è di amare ogni singola nota emessa dal quartetto, li supporterete acquistando ogni disco, ep, singolo, split, collaborazione. A prescindere dal parere del sottoscritto. Anche se vi farà piacere sapere che Plastic Eternity è il più bel disco dei Mudhoney dai tempi di Tomorrow Hit Today (disco del dio) e che a tratti ricorda quella svogliata grunginess di My Brother The Cow (disco della madonna). Certo, qualcosa mi sa che stava nel cassetto da quei periodi lì, ma ci sta che dei sessantenni si vedano in saletta e dicano “sai quel pezzo di secoli fa che non abbiamo mai registrato? Non era mica male” e “vabbè, tanto ora non mi viene in mente altro di meglio”.
Sigilla il tutto una copertina bellissima che ricorda i dischi psichedelici che uscivano sul finire degli anni Ottanta e a inizio Novanta.
Grazie di esistere ancora.