MORT GARSON, Mother Earth’s Plantasia
Lo scorso 18 giugno il Botanic Garden di Brooklyn è stato teatro di una singolare iniziativa ad opera di Sacred Bones Records, etichetta di casa nel borough newyorchese, e Atlas Obscura, uno dei miei siti di riferimento per quanto riguarda la ricerca di mete insolite: all’interno dei 52 acri del giardino, in cui sono ospiti 14000 tipi di piante, si sono svolte sessioni d’ascolto del più curioso fra i lavori del compositore canadese Mort Garson. Mother Earth’s Plantasia è dedicato alle piante e il pensiero va subito a tutta quella musica italiana per sonorizzazioni ispirata al mondo della natura, a un disco come Erbe Selvatiche di Oscar Rocchi: mentre Rocchi, in combutta con Fabio Fabor, si limitava ad ispirarsi al mondo vegetale (anche se sappiamo che l’aspetto concettuale nell’ambito della musica per sonorizzazioni rimane sempre qualcosa di abbastanza aleatorio), Garson fa un disco pensato proprio per il mondo vegetale, per favorire la crescita delle piante d’appartamento che – secondo una credenza diffusa per quanto ancora tutta da dimostrare – pare si giovino molto dell’esposizione a particolari stimoli sonori.
Mort Garson è considerato a tutti gli effetti uno dei pionieri nell’utilizzo del Moog, strumento onnipresente all’interno della sua variegata produzione musicale che va dall’easy listening a lavori singolari come Black Mass, una sorta di messa nera per synth pubblicata nel 1971 con lo pseudonimo di Lucifer. Plantasia è un ottimo paradigma dello stile vagamente kitsch e sempre venato di ironia del compositore canadese: la title-track apre le danze e ti si conficca subito nella testa: è una sorta di bambinesca chiptune ante litteram con vaghi accenti beatlesiani. La seconda traccia è un morbido saliscendi dedicato al Chlorophytum, un pianta della famiglia delle agavi nota come pianta ragno, in cui sembra di percepire le gocce di rugiada posarsi sulle esili foglie: siamo dalle parti dell’Umiliani sotto mentite spoglie, quello più bizzarro e in avanti con i tempi. “Baby’s Tears Blues” è un blues sintetico e sguaiato dedicato ad una pianta tappezzante e alle sue minute foglioline, “Ode To An African Violet” è esattamente quello che dovrebbe essere, esotismo posticcio con quell’afflato space che fa tanto afrofuturismo; 2Ode To Phylodendron And Pothos” è un botta e risposta fra la determinazione del filodendro e la ritrosia del pothos. “Rapsody In Green” ricorda gli episodi acquatici firmati da Franco Tamponi, altro nome pesante della library music italiana, “Swingin Spathiphyllums” è frizzantina e sconfina nell’exotica con il suo tropicalismo istoriato da volute di synth, You Don’t Have To Walk A Begonia è bambinesca e scanzonata, mentre la successiva “A Mellow Mood For A Maidenhair” è un tributo alla tristezza della felce, pianta malinconica e bisognosa di poche cure. In chiusura il serpeggiare serafico del moog ben descrive l’austera sanseveria.
Appare singolare la scelta di pubblicare un disco così ad opera di Sacred Bones, una divagazione alquanto sgargiante rispetto a un catalogo virato quasi sempre sulla scala di grigi: un fuoripista dovuto, divertente e necessario. Chissà, forse sarebbe piaciuto anche al mio amato platycerium, vittima precoce della poca o nulla dimestichezza che ho nella cura delle piante d’appartamento.