MOE / MARHAUG, Capsaicin
Guro Skumsnes Moe dei Moe e Sua Maestà Lasse Marhaug hanno già collaborato per creare la colonna sonora – clamorosa – del film messicano “La Región Salvaje” di Amat Escalante, Leone d’Argento a Venezia nel 2016. Capsaicin è realizzato dai Moe al completo più Marhaug: leggo che i quattro (chitarra, basso, batteria, elettronica) hanno suonato più volte assieme dal vivo e in studio nel periodo 2016-18, dopodiché mister Pica Disk ha assemblato tutto per conto suo. È vero quando la presentazione per la stampa specifica che il disco non è affatto facile, dato che si tratta di settantasei minuti di drone-doom oppure – se vogliamo insistere con le etichette – free noise, col peso specifico dell’uranio. Capsaicin dà la sensazione del disastro incombente (se non in atto), della fine dolorosa e inevitabile: se fosse la scena di un film, sarebbe quella di “Interstellar” in cui Cooper e soci esplorano il primo pianeta ipoteticamente abitabile dagli umani e davanti a loro cresce un onda colossale pronta a spazzarli via. Qualcuno potrebbe pensare che si tratti di qualcosa di gratuito e persino tardivo, visto che già undici anni fa Marhaug performava coi Sunn O))) dentro la Cattedrale di Bergen, come testimonia il live album Dømkirke. Non è proprio così. Qui anzitutto si parla di gente eclettica, che non cerca di replicare il sound di O’Malley ed Anderson pur muovendosi negli stessi territori, e poi non ci si nasconde dietro a un dito: la volontà di far scendere una colata lavica pura e semplice è esplicita e nessuno ricontestualizza niente all’interno di chissà quale metafora o narrazione, dato che battezzare “capsaicina” un disco simile non è proprio quella che definiremmo arte concettuale. Sì, perché qua tutto brucia: Marhaug divampa – magari al rallentatore, ma l’immagine è questa – e gli altri sono lì a dare all’insieme la massa di un buco nero (per restare in tema “Interstellar”) e a gettare la loro benzina sul fuoco, causando fiammate improvvise come le grida di Guro in loop nella quarta e ultima parte, che a oggi sono la rappresentazione più realistica dell’Inferno. È il “no words no thoughts” swansiano, sfinente e difficile per l’ascoltatore come se fosse una qualche prova di resistenza fisica. Prendere o lasciare. Direi comunque prendere, se proprio me lo chiedete.