Modulisme #3: Robin Rimbaud (Scanner)
Ascolta la sessione di Scanner
Robin Rimbaud, aka Scanner, suona e gioca con la tecnologia da quando ha 11 anni. Non gli interessa inserirsi in un percorso sistematico registrazione-pubblicazione-tour, la sua attività è arte, fuori dalle routine standard del mondo musicale. Nel corso degli anni ha progettato delle installazioni sonore permanenti per l’ospedale Raymond Poincaré di Garches in Francia, nella stanza dove si dice addio ai propri cari, e per la Vex House di Londra, collaborando con lo studio di architettura Chance de Silva. Ha realizzato lo score per “The Big Dance” a Trafalgar Square, opera per 1000 ballerini, e anche quello per la riapertura dello Stedelijk Museum di Amsterdam, poi nel 2016 si è occupato della musica per il primo balletto in realtà virtuale, Nightfall, con il Balletto Nazionale dell’Olanda. Nel 2012 Scanner ha fatto un tour per «Live_Transmission: Joy Division Reworked», uno show audovisivo con la Heritage Orchestra, e nel 2014 è stato “Visiting Artist” al MIT. Più di recente, ha scritto per la London Sinfonietta, la BBC Concert Orchestra…. Uno dei compositori elettronici più influenti, che ha pubblicato il suo primo cd nel 1992 (e molti altri da allora…).
Come ti sei accostato alla sintesi modulare?
Robin Rimbaud: Prima ho visto un sistema modulare Eurorack nello studio di un mio buon amico, il sound artist americano Stephen Vitiello, è stato quando lavoravo in Virginia, negli Stati Uniti. Era qualcosa di completamente nuovo per me, ma l’estetica mi ha immediatamente attratto, lo splendido aspetto dello strumento. L’assenza di uno schermo, il caos dei cavi e le possibilità sonore.
Quando è accaduto? Quando hai comprato il tuo primo sistema?
Era il 2008, ma non ho comprato moduli fino al 2014. Anche dopo, è stata solo una manciata di moduli di Make Noise, Intellijel, Doepfer. Da lì in poi ho costruito un sistema sostanzialmente più grosso, con contenitori separati per specifici produttori (ad esempio Mutable Instruments, Make Noise, Verbos, Befaco, Analogue Systems…)
Che effetto ha avuto la scoperta della sintesi modulare sul tuo metodo compositivo? E sulla tua esistenza?
Il desiderio della scoperta e della sorpresa non mi ha mai abbandonato. La sintesi modulare mi ha offerto un modo di creare al di fuori del percorso a cui mi ero abituato negli anni e perciò mi ha spinto in direzioni “fresche”. La sfida di studiare questi sistemi era anche affascinante. Non è mai troppo tardi per imparare! In più c’era questa forte sensazione di essere parte di una comunità e di una scena, e del conseguente supporto reciproco da questo deriva, anche oggi.
Molto spesso chi usa i modulari ha bisogno di ancora più roba. La fame di nuovi moduli è insoddisfabile? Come lo spieghi?
Mi piacciono l’entusiasmo e il desiderio di imparare ancora, ma resto spesso spiazzato quando su web vedo che la gente sta vendendo modulari dicendo “l’ho usato solo per un’ora” oppure “ho comprato questa scatola di modulari il mese scorso, ma non l’ho usata”. Lo trovo scoraggiante. Devi investire del tempo prima di ordinare qualcosa e mentre lo provi. La magia non si rivela sempre subito! Servono lavoro e impegno per controllare e adoperare questi strumenti. Mi sorprende quando pubblico registrazioni o un video del mio lavoro e la gente commenta: “Oh, pensavo che questo facesse solo rumore, non musica!”. La pazienza manca a molte persone.
Puoi descrivere per favore il sistema che hai utilizzato per creare la musica di questa sessione dedicata a noi? Qual è il sistema dei tuoi sogni?
Per questo pezzo ho deciso di focalizzarmi solo su di una macchina, il Buchla 200e. L’ho preso a un’asta qualche anno fa e me ne sono totalmente innamorato. Non avevo preparato nulla per questa sessione, giusto collegato un po’ di cose per iniziare e poi lasciarle respirare e scorrere per la durata di un’ora. Amo come il Buchla mantiene il sound vivo e in movimento. È una registrazione live con l’aggiunta solo di un po’ di riverbero, non di altra strumentazione o di altri effetti. Il mio sistema dei sogni penso di averlo già, anche se osservo attentamente cosa creano oggi gli sviluppatori e ci sono sempre aziende che offrono nuovi ferri del mestiere di grande ispirazione, penso a SOMA e FRAP, quindi chi lo sa?
Ti senti vicino ad altri contemporanei che utilizzano i sistemi modulari? Quali pionieri ti hanno influenzato e perché?
C’è un numero sterminato di artisti che usano synth modulari e che apprezzo, contemporanei e “vecchi”: Richard Devine, Caterina Barbieri, Morton Subotnick, Michael Stearns, Datach’l, Luis Fernandes, Rodent e Walker Farrell, Keith Fullerton Whitman, Todd Barton…
La figura che più mi ha influenzato, e che difficilmente suonava sintetizzatori, è David Tudor (1926–1996). Il suo approccio inclusivo ed esplorativo all’uso dell’elettronica dal vivo e in sede di composizione si traduceva all’ascolto in un oceano di suono astratto ed espressionista, rischioso e sempre inventivo. È stato d’ispirazione per me – perché mi ha spinto a cercare strumenti non convenzionali – anche solo vederlo fotografato insieme al suo set-up, vestito impeccabilmente come sempre con abito nero e cravatta, circondato da un tavolo con strane scatole, cavi e aggeggi oscuri. Il mio primo pensiero vedendo i synth modulari è stato che finalmente potevo avere qualcosa alla David Tudor…
Che consiglio daresti a chi volesse partire col suo “Modulisme”?
Leggete i forum, guardate tantissimi video, parlate con gli altri, partecipate ai meeting e suonate con gli strumenti che trovate a questi meeting. Non comprate niente ancora. Assicuratevi di sapere cosa volte fare o costruire. Ricevo belle mail da estranei che mi chiedono consiglio, ma è molto difficile sapere cosa dire se queste persone non hanno chiaro che musica vogliono fare o sviluppare.
Soprattutto siate pazienti. E questo vale un po’ per tutti gli aspetti della vostra vita!