MINISTRY, 1/8/2018
Roma, Villa Ada.
Provocatorio, esagerato, divertente. Tutto questo è Al Jourgensen, frontman e mente dei Ministry. Lo storico gruppo di Chicago è passato a Milano e a Roma per presentare AmeriKKKant, l’ultimo album uscito lo scorso marzo, e il concerto non può che rispecchiare la forte personalità dell’unico membro originale della band.
Due grossi galli gonfiabili con sopra una svastica sbarrata campeggiano sul palco di Villa Ada. Un’introduzione d’assalto prepara l’ingresso di Al, che si va a piazzare dietro al suo microfono a forma di pipistrello-scheletro. Le domande che mi accompagnano per tutto il concerto sono: è pura paccottiglia o sono dei geni? Criticano realmente le logiche di dominio della società attuale o sono diventati delle macchiette? Quando pensi di aver trovato la risposta, ecco che lì i Ministry ti fanno cambiare idea.
Il nuovo disco prende spunto dall’ascesa di Trump e da ciò che l’ha resa possibile. I primi due pezzi sono tratti proprio da qui: prima “Twilight Zone” e poi “Victims Of A Clown”; nel frattempo sullo schermo il presidente degli Stati Uniti viene trasformato in un personaggio dei videogame che intraprende una lotta a colpi di raggi laser contro la Clinton. Dopo qualche brano ripescato da Rio Grande Blood, un’altra manciata di canzoni nuove. Il metal slavato di AmeriKKKant non offre grandi emozioni e il frontman sembra esserne consapevole, introducendole così: “Now we’ll play some more songs from the new album…yeah, I know, but you need this shit to poop, right?!”. Tra le più riuscite ci sono comunque “Wargasm” e “Antifa”: la prima è più lenta e inizia con una lunga e angosciante parte parlata, in cui un clown sadico racconta di come gode nel fare la guerra e vedere le persone morire; la seconda è un vero e proprio inno ai movimenti antifascisti, con tanto di immagini di scontri e manifestazioni sullo sfondo. Jourgensen trova che il pubblico non sia abbastanza partecipe considerato il momento politico italiano, e probabilmente ha ragione. Diciamo però che i due “black bloc” sul palco intenti a sventolare una bandiera dell’Antifaschistische Aktion e un’altra con la A cerchiata non hanno contribuito a far prendere la cosa sul serio…
I problemi politici di oggi non sono nuovi, dice Al, c’erano già negli anni Novanta e nelle guerre di quel periodo: introduce così ad esempio i pezzi di Psalm 69, tra cui N.W.O e Just One Fix. L’impatto è un’altro: la batteria si fa ossessiva, la chitarra smette di fare su e giù e aggredisce frontalmente.
Il concerto nel complesso è un’esplosione adrenalinica che non ti lascia il tempo per respirare, la vitalità del frontman coinvolge anche gli altri componenti, soprattutto i chitarristi e il bassista. Un riconoscimento a parte meritano le immagini martellanti: la facciona tatuata di Jourgensen ripresa in diretta compare in alternanza con discorsi di propaganda, spezzoni di film, personalità come Bourroughs, il pubblico presente e motivi astratti.
La questione è che dopo tre componenti del gruppo morti in diversi modi, la droga, i problemi con la legge, le infinite collaborazioni e la dura critica contro i governi e le guerre, non c’è più l’impatto di una volta, anche se lo spirito è rimasto lo stesso. Nonostante i temi trattati siano estremamente attuali e nonostante di gruppi schierati ci sia bisogno più che mai, il linguaggio – in primis musicale – dei Ministry è basato su una ripetizione di maniera, non sempre all’altezza dei loro tempi migliori.