MILITARY GENIUS, Deep Web

MILITARY GENIUS, Deep Web

Brume intime e cosmiche, ombre sullo sfondo della mente come una finestra appannata in inverno, uno skyline familiare e languido, dal finestrino di un vagone urbano a cui è appoggiato uno smalltown boy. Queste le prime immagini che affiorano ascoltando l’incipit dell’omonimo disco di Bryce Hildebrand Cloghesy, musicista e produttore di Vancouver, in arte Military Genius, qui all’esordio con Deep Web, pubblicato da Unheard Of Hope.

Otto tracce inafferrabili, costruite con pochi, calibratissimi elementi (sassofono, tastiere, batterie elettroniche, basslines minimali e a presa rapida) che vengono dosati con scienza e istinto e una voce indolente che sembra quella di un confidente a cui rivelare i nostri più imbarazzanti segreti: languori che sembrano non sciogliersi mai, inverni metaforici e reali, un soul tutto interiore, screziato da venature post-punk e un mood da notte insonne che cattura e riscalda. Il primo singolo messo in giro, “Focus”, è una ballad perfetta per Blade Runner, si regge su un pugno di note, un soffio di spazzole, un’armonica spettrale come un blues galattico, un niente che sa di buco nero e di famiglia al tempo stesso. Gran pezzo, che svanisce nel nero da cui è arrivato. Un nero che è il colore predominante di tutto il lavoro, un nero avvolgente e convincente nel quale smarrirsi. Drum machines sdentate (“Not Tonight”), frenetiche moviole tra pioggia e spleen a ricordare la saudade grigia di certi Massive Attack o il grande Andy Stott di Luxury Problems (“When I Close My Eyes”, che quando parte quel pugno di note di tastiera non lascia scampo), un funk dentro uno sgabuzzino (“Let My Guard Down”): il musicista non usa neologismi ma dimostra una grande padronanza del lessico, un’ottima capacità di combinare elementi noti in incastri che suonano freschi e convincenti, come preziosi classici istantanei per soulboys da cameretta sparata nello spazio. Musicalmente c’entra poco e niente, ma in qualche modo mi viene in mente anche William Basinski: forse è la grana del suono o l’uso del sassofono, forse è la lentezza che come un virus benefico viene  inoculato nel dna di quelle che restano alla fine canzoni, pur avendo un corpo celeste e aperto (la stanza d’echi di “Reflex”, con il suo pianoforte che sembra accennare una partenza che non ci sarà). Oppure la ruggine che in qualche modo sembra corrodere questi relitti di melodie, ancora splendenti, ma in qualche maniera magnificamente rovinati, in senso positivo, da arrangiamenti curatissimi e sghembi. Il cuore che batte in delay di “The Runner”, come un post-rock badalamentiano avvelenato dal dub, appunti su una deriva nello spazio, ed alla fine la chiusura, come un carillon trovato per terra in un lunapark abbandonato, tra Vic Chesnutt e i Labradford, con uno strano, speziato sapore di ristorante cinese in bocca (quel che di imprendibilmente orientale che affiora nella nenia della voce, come un canto folk dalle terre del Coronavirus). Military Genius a breve sarà in tour in Italia, non perdetevelo. Deep Web è un disco dolente e carezzevole, perfetto per l’inverno, una caramella deliziosa per arrivare nel modo migliore all’inferno.