MIKE COOPER, Tropical Gothic
La leggenda narra di un giovane Mike Cooper gestore nei primi anni Sessanta di un locale di musica blues a Reading, a cui viene chiesto di unirsi ad una nuova band che prenderà il nome di The Rolling Stones. Mike declina gentilmente l’invito e il resto è storia: bene per lui, direi, bene per noi e per gli Stones, un po’ meno bene per il biondo chitarrista che occuperà il suo posto nelle Pietre Rotolanti. Quella disposizione al blues gli rimarrà attaccata per sempre – è evidente quando fa uso della voce – e sarà trasfigurata all’interno di uno stile peculiare (in continua evoluzione e che gli frutterà stima da più parti e collaborazioni numerose), tutto improntato su una personalissima restituzione del suo continuo girovagare, su una visione degli adorati tropici che prescinde da qualsiasi oleografia e che di questi fa in pratica un paesaggio dell’anima, vissuto sì, ma ancor più immaginato ed evocato. Da tempo di base a Roma, Mike Cooper continua a dedicarsi con ammirevole energia a una moltitudine di progetti sempre nuovi: lo si trova spesso da qualche parte a suonare o altrettanto spesso a veder suonare, riconoscibilissimo nelle sue amate camicie a tinte esotiche. Una volta è passato per il mio paese e dopo venti minuti di concerto qualcuno dietro di me faceva al suo vicino “sta accordando, vedrai che fra poco comincia…”. Non è musica facile la sua, effettivamente, richiede una certa propensione a lasciarsi andare al moto ondoso continuo scandito dallo sferragliare delle sue chitarre, a farsi sballottare in un sublime intreccio fra caos elettronico e melodia.
Tropical Gothic (uscito per Discrepant), come lascia ben presagire il titolo, è solo l’ultima delle molteplici variazioni sul tema dell’esotismo: questa volta Mike smorza quella luce abbacinante che batte sulla maggior parte della sua produzione recente per offrire un paesaggio ostile, dalle tinte tetre e minacciose, su cui dominano superstizioni incomprensibili e atmosfere inospitali. I loop disegnano cerchi nell’acqua, prevalgono un senso di spossatezza e l’odore del legno marcio. È il suono dell’uomo dinanzi a una natura arcigna e allo stesso tempo maestosa: dietro al recupero di un senso di tragica impotenza e di sottomissione alla natura c’è un tentativo, forse vano, di dialogo con le forze primordiali. La prima facciata di Tropical Gothic è costituita da otto brevi tracce, caratterizzate, come dicevamo, da quel mood caliginoso che è il filo conduttore del disco, interrotto solamente dal settimo episodio, “Running Naked”, una pazza e ingiustificata esplosione di allegria che sembra provenire da uno scampolo vhs di qualche brutta serie tv americana anni Ottanta; il lato B è occupato interamente dai 18 minuti di “Legong/Gods Of Bali”, suoni di vibrafono agri e allucinati, che danzano affastellandosi fino allo sfinimento, fino alla chiosa che è il canto delle cicale e quello di uccelli presagio di sventura. Fra le cose più singolari partorite da Mike Cooper, merita una chance.