MIEN, Mien
In questi tempi di elefantiasi della produzione musicale, di tutto si ha bisogno tranne che di supergruppi, esperienze che spesso si caricano di aspettative ma che alle strette non superano il livello quasi amatoriale della “serata tra colleghi” né, tantomeno, la prova del tempo. Partendo da questo assunto – ovviamente più che contestabile e smentibile – immaginate cosa si potesse pensare appena giunta la notizia del progetto Mien, che raggruppa gente in libera uscita da Black Angels (Alex Maas a voce, samples, loops), Horrors (Tom Furse, tastiere, programming), Elephant Stone (Rishi Dhir, basso, sitar, tastiere) e Earlies (John-Mark Lapham, tastiere, samples, programming) e che viene firmato dalla Rocket: centro pieno o più probabilmente tempo perso e risorse sottratte ad altri progetti?
Beh, come al solito il pre/giudizio aiuta fino a un certo punto e questo lavoro dei Mien è tutto fuorché il bolso concentrato di tempo libero e frikkettonismo che immaginavamo: è un gran bel lavoro, ispirato e pure, se non proprio originale, quantomeno poco banale, di psichedelia varia ed eventuale. Ovvero una miscela per forza di cose tendente a un rock psichedelico, vista la loro provenienza, ma che non si fossilizza sul canovaccio di genere e anzi mette in mostra tante influenze e di soluzioni. Saltando il preambolo del come si sono incontrati – si sappia che la pietra dello scandalo è il SXSW di Austin, patria di certa psichedelia – si vedono spesso, nonostante l’eterogeneità dei quattro, una linea sottotraccia d’estrazione british e le svisate etno; alla prima rimandano ad esempio l’attacco di “Earth Moon”, che fa tornare in mente gli Stone Roses e madchester tutta, l’hard-psichedelia mutante di “Black Habit” o “(I’m Tired Of) Western Shouting”, ma più in generale un certo atteggiamento baggy (“You Dreamt”) che aleggia su tutto l’album, mentre il secondo input si manifesta sotto forma di riff mantrici e oppiacei ed è probabilmente lascito dell’influenza di Dhir e del suo sitar (in “Ropes”, ad esempio), che riempie l’atmosfera di spezie cangianti donando quella “alterità” al tutto che ne fa apprezzare ulteriormente il risultato. Metteteci qualche rarefazione ambientale (“Other”), una particolare attrazione per ossessione vs melodia (“Hocus Pocus”) e per l’interazione tra acustica ed elettronica (“Odessey” che è un po’ la summa del Mien pensiero e di quanto detto finora) e avrete un ottimo album figlio dei suoi tempi.