METZ, Atlas Vending
Se scrivete “Metz” su Google, il primo risultato ha a che fare con una città nel nord-est della Francia di circa 118.000 abitanti, subito dopo compare la sua squadra di calcio (ça va sans dire), che porta anche il nome di “Les Grenats”.
Apparentemente potrebbe non esserci collegamento coi Metz, come loro stessi hanno dichiarato, se non per l’unico fatto che sono di Ottawa (anche se adesso operano a Toronto), la capitale del Canada con un bilinguismo inglese/francese quasi paritario. Eppure, da quando li ho ascoltati la prima volta, ho sempre trovato delle similitudini tra loro e la città, ed è anche probabile che sia io quello un po’ svitato, ma questa è un’altra storia. La città di Metz è sempre stata contesa nel corso dei secoli, riuscendo poi a raggiungere una sua indipendenza, e oggi è un perfetto connubio tra la storia che la circonda e il suo moderno presente.
Quando uscì il primo disco dei Metz, la band fu salutata da tutti come degna erede dei tre di Seattle, vuoi per essere un power trio capitanato da un chitarrista biondo e scapigliato, vuoi per il sound parecchio “flanellato” o per l’etichetta che l’avrebbe sempre prodotta, la Sub Pop. Tutto questo, per fortuna, non l’ha destabilizzata, ed è arrivata a pubblicare il quarto album, Atlas Vending. Così com’è successo al comune francese, i Metz dal 2012 ad oggi hanno percorso una strada tortuosa e fatta di etichette che necessariamente bisognava appicciare, prima quella di restauratori del Grunge (non è stato detto esattamente così, ho riassunto io), poi quella di nuovi eroi del Rock mondiale. Disco dopo disco, invece, hanno raggiunto una propria identità e indipendenza, rimanendo fedeli al loro background musicale ma innovandolo ogni volta con elementi tali da renderli sempre più simili a loro stessi e non a chissà quale gloria del passato.
Questo quarto album dei nuovi paladini delle chitarre sferraglianti è un percorso di ipnosi tra pulsazioni ritmiche incessanti (“Pulse”), incursioni emocore (“No Ceiling”), riff sfilacciati country-blues (“Draw Us In”), classici del Noisecore newyorchese – Unsane su tutti – con cui li abbiamo conosciuti e un brano di quasi otto minuti, “A Boat To Drow In”, pubblicato come singolo, a conferma che andare in controtendenza nel fare le cose è uno degli aspetti che li rende ciò che sono alle orecchie di chi li ascolta.
Ho visto i Metz per la prima volta nel 2013 a Roma – fu anche il primo concerto a cui andai da solo – e li ho rivisti nel 2019 al Lars Rock Fest. Atlas Vending è il perfetto riassunto di quei due momenti, il principio e il presente, un disco furioso nella sua essenza ma pieno di sfumature che affiorano ad ogni ascolto. D’altronde, come dice Alex Edkins (voce e chitarra): «change is inevitable if you’re lucky». E noi siamo fortunati a poter godere di questi cambiamenti.