METRO CROWD, Planning

METRO CROWD, Planning
Il trasporto pubblico costituisce un punto di vista privilegiato da cui osservare splendori e miserie di una città, offre spesso siparietti impagabili e, altrettanto di frequente, scene di uno squallore indicibile (vedi le testimonianze video di becero razzismo che circolano in rete, molte delle quali filmate proprio sui mezzi pubblici): uno specchio fedele di tic e nevrosi di una comunità, così mi apparivano i mezzi pubblici quando, a metà degli anni Novanta, da giovane e sprovveduto studente di provincia mi accingevo a districarmi fra il caos di quella metropoli splendida e complicata che è Roma.

I Metro Crowd, compagine di inveterati teppisti dello strumento sbucati dal sottosuolo di Roma Est, si rifanno per l’appunto alla melassa umana che trabocca quotidianamente dai mezzi pubblici, un estenuante blob di carne e sudore che sversa ogni giorno per le strade della Capitale e giù fino alle sue viscere, e bisogna dire che stavolta, ancor più rispetto al recente passato, danno l’impressione di aver centrato il tema. Andando a rispolverare le recensioni che abbiamo fatto dei due precedenti lavori (in sostanza lo stesso lp proposto in un secondo tempo con alcune appendici) mi sono accorto che entrambi gli scritti chiosavano con una forte curiosità per gli ulteriori sviluppi di un progetto che ha il pregio di suonare familiare ma non “già sentito”, come se i quattro si fossero da subito premurati sì di salire sulle spalle dei giganti, salvo poi pisciar loro in testa e mandare in vacca il tutto. Se allora ho parlato di Fall e fatto un generico riferimento alla No Wave newyorchese, questa volta mi sento di avvicinare il nome dei Metro Crowd, per sonorità ma ancor di più per atmosfere, alla San Francisco post-punk di Chrome, Factrix e, perché no, dei primi Tuxedomoon. Nelle nove tracce che compongono il disco, nove spaccati di sofferenza urbana, si ha la percezione dello sferragliare incessante delle rotaie, un filo comune che parte dallo pseudodub obnubilato di “Gas In A Wagon” e arriva fino a “L-Fields”, che conclude il disco con l’inserto noise approntato da Toni Cutrone in versione Mai Mai Mai. Nel mezzo ci troviamo tanta zozzeria, malessere urlato o biascicato, le chitarre che vaneggiano sballottate dal basso (“Infrared Sauna”), vengono lasciate a soffriggere (“Travel Care”) oppure – un po’ dappertutto – sono impestate di flanger. Il livello di disagio percepito è alto lungo tutto il disco: il vero capolavoro rimane però l’angosciosa “A.C. Quarantine”, incubo sudato e appiccicoso che simula il lento cavitare di una ventola malandata. Questa è la roba che vorremmo sentire in filodiffusione in tutte le stazioni della metro.