METALYCÉE, Expat Blues
Oggi i Metalycée sono un trio voce-batteria-elettronica, con base a Vienna. Quando ho sentito il quasi-spoken word di Melita Jurisic e i bassi invasivi ho subito pensato a un disco come Liquid di Recoil (Alan Wilder, l’ex Depeche Mode): sensuale, cupo, non facile, un mix di hip hop, trip hop, blues (ok, non era difficile), dub, realizzato da chi però usa sintetizzatori – qui c’è un Telharmonium – e macchine, tanto che c’è persino qualcosina di industrial qui dentro. Se di Liquid vi andate a cercare “Want”, capirete com’è la Jurisic, se poi sentite anche “Jezebel” (una specie di gospel cantato per davvero da uno del Golden Gate Jubilee Quartet), capirete cosa intendo con la descrizione della “formula Metalycée”. Sono stato innamorato a lungo di quel disco e mi è difficile dunque essere obiettivo in questo caso, dato che non credo che il gruppo abbia copiato qualcuno e soprattutto penso che abbia sbagliato davvero poco con Expat Blues, che usa una tavolozza anche più ampia di quella di Wilder, restando però essenziale e tagliente quando serve.
L’album, caratterizzato da testi nerissimi, è come una camminata notturna in città, tra stazioni delle metro, sottopassaggi, neon, ruggine, umidità e pioggia incessante. Sicuramente bravi.
Tracklist
a1. Northwest To Southeast
a2. Before You Were My Torturer
a3. Expat Blues
b1. Everything
b2. Lest We Forget
b3. Ballad Of The Half Orphan
dl. The Right Track